SOMMARIO DELLA SEZIONE:
- UN POZZO NEL CUORE
- FOIBE, UNA STORIA COLPEVOLMENTE NASCOSTA
UN POZZO NEL CUORE
Lo sceneggiato sulle foibe, di cui si era fatto un gran parlare ormai da tempo, è andato finalmente in onda sul primo canale della televisione italiana, in concomitanza con le manifestazioni per il "Giorno del Ricordo", programmate ai sensi della legge istitutiva del 30 marzo 2004. In questo filmato, come previsto, le foibe hanno costituito lo sfondo di una vicenda personale, nella cui illustrazione la fantasia del regista è stata assai ampia, ma non si può comunque dire, come qualcuno ha affermato, che la politica ne sia rimasta fuori.
La tesi negazionista, sostenuta a più riprese da alcune componenti della storiografia di sinistra, e di quella ex-jugoslava, vi ha trovato totale confutazione anche all’occhio dei non addetti ai lavori, perché le persecuzioni contro gli italiani, e gli stessi sloveni dissidenti, sono state descritte dal "Cuore nel pozzo" con ampia visibilità.
E’ stata largamente condivisa, invece, la tesi giustificazionista. Quando il comandante partigiano Novak, con tanto di stella rossa sul berretto, afferma con enfasi che gli jugoslavi erano stati "trattati come schiavi" durante l’esercizio della sovranità italiana sull’Istria, e che le stesse uccisioni di cittadini inermi, sicuramente incolpevoli di alcunché, avevano lo scopo di "pareggiare i conti", esprime una volontà di genocidio che corrispondeva ad un preciso piano di Belgrado, confermato da fonti slave più che autorevoli, quali i delfini di Tito, Kardelj e Gilas. A più forte ragione, rientrano nella medesima logica, e nella logica giustificazionista, la distruzione dei libri italiani, la pretesa di installare degli ambulatori medici slavi (sebbene non risulti che le bande avessero adeguate strutture sanitarie di supporto); e prevaricazioni analoghe.
Nella filosofia politica del comandante partigiano, vero protagonista politico del filmato, gli italiani sono "traditori", ed a suo giudizio, persino la donna nei cui confronti aveva puntualmente esercitato la licenza di stupro concessa ai conquistatori, lo avrebbe accettato "se fosse stato italiano". Tesi aberranti, ma motivate, giova ripeterlo, dalle precedenti persecuzioni a danno degli slavi.
La stragrande maggioranza dei telespettatori non conosce la storia, generalmente non per colpa propria (l’assunto vale a più forte ragione per "Cuore nel pozzo", che ha avuto dieci milioni di contatti). E’ da supporre, quindi, che la teoria giustificazionista degli infoibamenti abbia trovato facile presa, sebbene il filmato abbia il merito di avere divulgato vicende spesso ignote e, se non altro, di aver fatto pensare. In realtà, le cose non andarono affatto come si vorrebbe sostenere: nell’anteguerra, a parte l’assimilazione forzata di croati e sloveni, inutilmente controproducente ma ben diversa dalle uccisioni indiscriminate, il Tribunale Speciale aveva pronunziato un ristretto numero di condanne capitali a carico di terroristi confessi (non più condivisibili nell’odierna sensibilità che esclude qualsiasi legittimità etica e giuridica della pena di morte, ma affatto comparabili con quanto sarebbe accaduto a danno degli italiani, anche a guerra finita da un pezzo).
Il grande esodo dei 350 mila (nove decimi della popolazione) non fu solo una scelta di civiltà, ma prima ancora una fuga per uscirne a salvamento, abbandonando all’invasore i beni materiali, e soprattutto, la grande "eredità d’affetti" delle tombe avite.
Quanto al periodo bellico, a parte le violenze dell’una e dell’altra parte, tristemente comuni ad ogni conflitto, giova rammentare che molte condanne capitali a carico dei partigiani slavi furono commutate in pene detentive dalla grazia governativa. Per quanto è dato sapere, non risulta che analoghi provvedimenti siano intervenuti a favore degli italiani, anche a prescindere dalla fondamentale differenza di "status" militare.
In buona sostanza, la tesi giustificazionista è per lo meno ardua, perché i delitti commessi dai titini anche a danno di civili, ed in particolare di donne e di vecchi, non potevano essere ragionevolmente supportati dalla volontà di "pareggiare i conti", ma erano motivati da ordini superiori che prevedevano la conquista integrale di Venezia Giulia e Dalmazia (fino al Tagliamento) anche a costo del genocidio, e naturalmente, l’instaurazione della cosiddetta democrazia popolare. O forse si vuole sostenere che gli aguzzini, per dirne solo una, fecero bene a stuprare, torturare ed infoibare la povera Norma Cossetto?
Oltre tutto, questo "Cuore nel pozzo" ha proposto alcuni dettagli ai limiti dell’incredibile. E’ mai possibile, ad esempio, che un bambino possa scendere in una foiba fino a scoprirvi il corpo senza vita della mamma? O che gli autocarri dei partigiani, per non dire del loro abbigliamento e dei loro stivaloni, fossero nuovi di zecca? Peccati certamente veniali, ma tali da indurre, anche per questi aspetti descrittivi, una distorsione della verità, ben diversa, e tristemente nota a chi ebbe la sventura di vedersi piombare in casa le milizie di Tito, per esercitarvi, nel migliore dei casi, il "diritto" di requisizione.
Se l’opera aveva qualche scopo di informazione e di cultura storica, come è stato affermato dal Soggetto committente, bisogna dire nostro malgrado che l’obiettivo è stato conseguito in modo quanto meno parziale, e spesso minoritario: del resto, una "fiction" non può essere un documentario. Molti telespettatori ignari hanno capito poco o nulla, salvo che le foibe furono una punizione esagerata, ma comprensibile alla luce delle "colpe" italiane. Più che di un cuore nel pozzo, l’effetto prevalente, ancorché contrario alle intenzioni, è stato quello di un pozzo nel cuore, scavato con l’arma sottile di una commozione non priva di concessioni demagogiche, col triste risultato di riaprire antiche ferite degli esuli giuliano-dalmati e di aggiungere rinnovato dolore ad una serie infinita di disillusioni.
Carlo Montani
FOIBE, UNA STORIA COLPEVOLMENTE NASCOSTA
Per restituire al Paese il dramma di una generazione di italiani sradicati dalla loro terra.
Assistendo alla prima puntata del serial televisivo "Il cuore nel pozzo" riflettevo sullo scherzo atroce giocato dal destino ai nati attorno agli anni ’40, ed in particolare a quanti hanno trascorso la loro infanzia - un’infanzia di guerra - nei territori della Venezia Giulia, dell’Istria o della Dalmazia. Robert Brasillach, nella sua celebre Lettera ad un soldato della classe ’40, scritta poco prima di essere "giustiziato" dai "liberatori", ricordava come nei primi anni di vita quei bambini sono scesi nei rifugi durante gli allarmi, hanno saputo cosa fossero i bombardamenti e non sapevano cosa fosse una banana, un’arancia, una torta di cioccolato. In questo penso che noi giuliani, istriani dalmati eravamo nella stessa condizione della stragrande maggioranza dei bambini europei. Ma avevamo, inconsapevolmente, un ulteriore cruccio. C’era chi voleva farci sparire assieme alle nostre famiglie e non si trattava soltanto di stranieri.
La Giornata del Ricordo, iniziativa lodevole e necessaria, se per altri può essere finalmente occasione per conoscere verità della nostra storia volutamente mistificata od ignorata per decenni, scioglie in noi grumi di sofferenza e ci riporta ai momenti disperati delle domande imperiose ai nostri cari, le cui risposte giungevano spesso ai nostri cuori ed alle nostre menti dalle cavità carsiche trasformate in Tombe o da Cimiteri che rappresentavano il disastro, la sconfitta della Nazione, il cammino doloroso di una generazione costretta a lottare per vivere senza il supporto di quegli appoggi spesso considerati i mattoni necessari a sviluppare nuove generazioni.
Penso al mio mondo, a quanti tuttora mi circondano: non c’è quasi famiglia che non conservi con la memoria dei propri cari una sorta di latente disagio nei confronti di un mondo "ufficiale" che soltanto ora si accorge di quanto è avvenuto a nordest al termine della guerra ed ancora successivamente per tanti anni. Vien voglia di gridare forte : "noi lo sapevamo da sempre!"; vien voglia di portare in piazza gli scaffali nei quali abbiamo accumulato la documentazione delle ingiustizie subite, che pure venivano puntualmente registrate da storici, scrittori, politici. Le loro opere, spesso rifiutate dalle case editrici in voga, diventavano per noi il sostituto di quanto era venuto a mancarci: la casa, il paese, gli amici. I nostri cari.
La fiction televisiva, che pure ha destato forti emozioni, banalizza necessariamente una realtà che è stata più feroce e terrificante. Certo, i sepolcri imbiancati affermano non da oggi che la reazione slavo-comunista è stata causata dalle sopraffazioni subite nei decenni precedenti. Non c’è lo spazio per confutare questa clamorosa bugia. Il disegno di eliminare ogni presenza italiana addirittura fino al Tagliamento è stato accarezzato già dalla fine dell’Ottocento e progressiva è stata l’opera di snazionalizzazione, che ha visto come prime vittime le genti italiane della Dalmazia. E’ doveroso ricordare che negli anni 1920/21 diverse decine di migliaia di profughi abbandonarono le loro città e le loro isole per restare italiani, raggruppandosi a Zara od a Lagosta, oppure sparpagliandosi su tutto il territorio nazionale.
In questo periodo (finalmente!) le Foibe e l’Esodo trovano ampio spazio sui massmedia. Le notizie risultano spesso minestra riscaldata, quasi stanca ripetizione di un canovaccio che non richiede approfondimenti. Meglio che niente. Può risultare forse interessante esaminare qualche particolare poco conosciuto per supportare una tesi semplice: titini o slavo-comunisti sono la stessa cosa.
Lo dimostra quanto accaduto ad Antonio Budicin, un istriano, fiero antifascista, (era stato più volte in carcere e per lunghi periodi al confino) che dopo una vita perigliosa, fedele alla sua ideologia marxista, si unì alle formazioni partigiane per combattere contro i tedeschi ed i fascisti. Non faceva però mistero della sua completa avversione alle mire annessionistiche dei partigiani di Tito, che la facevano da padroni e che potevano contare sulla connivenza di quasi tutti i comunisti italiani. A cominciare da Togliatti che indirizzava ai lavoratori triestini un messaggio in cui affermava che «era loro dovere accogliere le truppe di Tito come liberatrici e collaborare con esse nel modo più stretto». E fu preso in parola, Veltroni forse non lo ricorda, ma noi sicuramente. Ma torniamo ad Antonio Budicin. Il disaccordo con il comunismo nazionalista slavo portò al suo arresto con l’accusa infamante di essere «nemico del popolo». La detenzione nelle carceri titine è raccontata in un memoriale dello stesso Budicin pubblicato dall’Istituto Regionale per la Cultura Istriana. Fuggito rocambolescamente ai suoi carnefici, Budicin riuscì a riparare in Italia ed a Roma cercò un’improbabile riabilitazione da parte dei suoi vecchi compagni del Pci. Gli venne consigliato di rivolgersi a Walter Audisio, il dichiarato uccisore di Mussolini, con il quale aveva condiviso il confino. Si sentì dire (e riporto testualmente dal Memoriale): «Non hai pensato d’aver fatto male a fuggire da un paese retto da compagni comunisti? Avresti dovuto attendere l’intervento del partito... Sai che potremmo farti il processo qui in Italia e farti instradare in Iugoslavia, perché non ci si comporta come dei reazionari?». Antonio Budicin fu riabilitato nel 1974 dal Pci triestino e morì esule in Argentina nel 1977. Suo fratello Pino, anche lui partigiano, morì nel 1944 in una situazione poco chiara, forse spedito in mezzo ad un rastrellamento. L’esempio citato ovviamente non è l’unico del quale siamo a conoscenza. Chi non era d’accordo con gli slavi, anche se comunista, veniva fatto fuori.
Dunque non è soltanto con i fascisti che ce l’avevano. Tutti racconteranno in questi giorni dell’esodo da Pola, degli episodi più feroci verificatisi attorno alle foibe, come quello di cui fu vittima a Visinada d’Istria la giovane Norma Cossetto. Voglio invece ricordare ancora - tra mille - un episodio "minore" che coinvolse uno che fascista non era sicuramente: Don Romano Gerichievich, ultimo parroco di Lagosta, in Dalmazia. Nato a Curzola, nel 1913, da famiglia italiana, si occupò sempre esclusivamente del suo Ministero. Ma i tre anni e tre mesi in cui resse la Parrocchia di Lagosta gli costarono sofferenze inenarrabili ed una detenzione nelle carceri titine che, iniziata nel 1944 - si concluse appena nell’ottobre del 1949. Assieme a lui, vennero privati della libertà moltissimi altri sacerdoti e numerosi rimasero vittime del furore rosso, assolutamente contrario a quanto potesse costituire legame con la cultura e la tradizione italiana. Va tra l’altro ricordata la violenta bastonatura inflitta a Capodistria (luglio ’47) al Vescovo di Trieste Antonio Santin.
Sembra incredibile, ma la Giornata del Ricordo ha scatenato reazioni scomposte, ancorché limitate, da parte degli incorreggibili anti-italiani che ancora abusano della magnanimità dello Stato italiano. In un paese in provincia di Gorizia il consiglio comunale ha deliberato di sostituire i nomi delle vie intitolate ad italiani con toponimi o con riferimenti alla cultura slava. Via Nazario Sauro, è stata ribattezzata "pot na Rije". In provincia di Trieste c’è chi ancora protesta perché nel Comune di Duino Aurisina sono stati costruiti (nell’immediato dopoguerra!) due insediamenti per profughi istriani. Durante la programmazione del serial televisivo, c’è stata una manifestazione di protesta davanti alla sede Rai di Trieste. Potremmo continuare, ma penso sia meglio fermarci qui. Intanto siamo in Europa, ma basta un nonnulla per capire che le ferite sono ancora aperte e che vanno curate con un’intelligente azione di sviluppo culturale e di relazioni con gli italiani che tutt’ora vivono nei territori che per tradizione e cultura, oltre che per popolazione, sono sempre stati veneti ed italiani. Per fare ciò è indispensabile che la storia sia letta in tutte le sue pagine e conosciuta da tutti ed in particolare dalle nuove generazioni. Ogni italiano che anziché Zadar dirà Zara, anziché Rjeka dirà Fiume, e così via, farà un piccolo passo per un ritorno della presenza italiana nelle sue naturali zone di influenza.
10 febbraio: Giornata del Ricordo. Ricordiamo le Foibe, ricordiamo l’esodo ed anche l’iniquo Trattato di pace. Nella stessa data il nostro pensiero va anche ad una piccola maestra meridionale: Maria Pasquinelli. A Pola, per protestare contro il trattamento riservato dai vincitori all’Italia, esplose tre colpi di pistola contro il comandante generale inglese Robin De Winton, uccidendolo. Condannata dapprima a morte, si vide commutare la pena in ergastolo e fu graziata appena nel 1964. Anche Lei fa parte di quell’infinita schiera di Italiani che non hanno esitato a sacrificare ogni cosa per la propria Patria.
Fulvio Depolo
Presidente UGL Trieste