Se ne è andato il 17 gennaio Emanuele Severino. Sarebbe più appropriato dire è “scomparso”, non appare più. Eh sì, perché dell’apparire e dello scomparire Severino ha fatto la storia della sua vita. Autore di moltissime opere di filosofia, suscitando scandalo per le sue affermazioni tra gli studiosi ,ha iniziato la sua carriera di docente in Cattolica molto giovane. Allievo di un altro grande maestro, Gustavo Bontadini, ben presto gli studi della filosofia antica lo portarono ad approfondire il pensiero di Parmenide. E qui avvenne la folgorazione. Ogni studente del primo anno di filosofia apprende la famosa frase dell’autore greco : “L’essere è e non può non essere; il non essere non è e non può essere”. Una frase che può sembrare quasi un gioco di parole per i profani, ma che contiene una profondità di pensiero senza uguali, non contraddicibile. E su questa “rivelazione” Severino ha imbastito per tutta la vita il suo pensiero, la sua riflessione. Se è così, e così è dal punto di vista logico, le cose non nascono dal nulla e non divengono nulla, semplicemente non divengono: tutto è da sempre, eterno. Il divenire è solo un apparire e uno sparire, non un annullamento, proprio perché il nulla non c’è, è impensabile, è indicibile. La prima pubblicazione su questo tema, che diventerà, come detto, il tema di tutta la sua vita, è Ritornare a Parmenide del 1965. Ma aveva scritto già la sua opera forse più importante, La struttura originaria nel 1957. Poi verranno Essenza del nichilismo , Legge e caso, solo per citarne qualcuna. Una produzione incessante, sino agli ultimi giorni della sua vita. Il conflitto con la Chiesa diventò ben presto insanabile, la sua permanenza nell’Università Cattolica anche. E così Severino venne interrogato proprio come Galilei in un “processo” che durò dal 1961 al 1970; alla fine venne allontanato dalla Cattolica, per le conseguenze del suo pensiero in chiaro contrasto con la dottrina della Chiesa.
Ma cosa ha rappresentato Severino per i giovani della mia generazione e per quelli che impararono a conoscerlo in quegli anni sessanta? O perlomeno cosa ha significato per chi scrive la sua figura. Matricola all’Università Cattolica, sentivo parlare di Severino dagli “anziani” con grande reverenza, con rispetto quasi sacro. Io avevo intrapreso la mia strada da subito: storia contemporanea, ma la facoltà era di filosofia e quindi dovevo affrontare tutti gli esami di filosofia in essa presenti. Ascoltare le lezioni di Severino era come essere presenti davanti alla “Verità”. Può sembrare eccessivo, ma l’alone di stima che lo circondava era tale che durante le sue lezioni c’era la sensazione di essere di fronte al Genio. Erano gli anni in cui la contestazione dei suoi scritti era sempre più accesa e si incrociava con la contestazione studentesca. Ma Severino appariva saldo, come la personificazione della Verità. Come credente mi attengo al Magistero della Chiesa e quindi, pur affascinato dal pensiero di Severino, non seguo il cammino da lui tracciato. Del maestro conservo l’attaccamento agli studi, la volontà di scoprire la verità, la fedeltà alle proprie idee fino in fondo, ma io credo quia absurdum, credo perché assurdo. Mi resta la sua tenacia, l’insegnamento di chi fino alla fine ha tenuto fermo il suo punto di vista. Maestro di vita. Una visione della vita che si compendia in quanto dichiarò esattamente un anno fa, nel luglio 2019, su Vita magazine (intervista rilasciata a Marco Dotti) : “Non smetto di studiare, di pensare, di lavorare. Bisogna adattarsi alla vecchiaia senza cedere nel futile e nella logica del “passatempo”. “Aveva già compiuto novant’anni.
A.V.