Da sempre ci diciamo che l’Italia non ha ancora fatto i conti con la storia. Con la storia più recente, si intende. E lo si dice da parte di molti, da destra come da sinistra, in occasione delle vicende più varie, a giustificazione – va detto – della propria tesi. Così, per l’insorgere di manifestazioni, atteggiamenti o riti che si richiamano al fascismo o, più recentemente, al rientro della salma del re Vittorio Emanuele III in Italia, l’appello è “fare i conti con la storia”. Ma lo stesso vale per il mancato riconoscimento della tragedia delle Foibe da parte della sinistra comunista più intransigente o addirittura negazionista. Quando ci si trova di fronte a situazioni che non si accettano, che si vogliono rifiutare, ma che emergono improvvisamente, si fa appello a “fare i conti con la storia”, una volta per tutte. E qui si richiama quanto fatto dalla Germania e dal Giappone, che i conti con la storia li hanno fatti, sottolineando la diversità del paese Italia.
Ma “fare i conti con la storia” molte volte vuol dire, da parte dei richiedenti, far tacere le ragioni dell’avversario; negare dignità di parola a chi la pensa diversamente. O semplicemente negare la verità dei fatti.
La storia, non diciamo nulla di nuovo, la scrivono i vincitori; ma talvolta emerge un’altra lettura della storia, come un fiume carsico che prima o poi viene alla luce. Allora fare i conti con la storia diventa quindi necessariamente non accettare la storia “ufficiale” ma compiere una “revisione”. Revisione non è revisionismo. Il “revisionismo” ha una accezione negativa perché nasconde terribili verità, negando anche la realtà dei fatti. La revisione è il coraggio delle idee, il coraggio di dire che si è sbagliato, che forse le cose non stavano così come si era detto sino ad allora.
Insomma “fare i conti con la storia” non è semplice e talvolta nasconde verità per convenienza politica e per opportunità.
L’Italia non riesce a fare i conti con la propria storia più recente perché non riesce a contestualizzare i fatti. Siamo un popolo, per quanto può valere un discorso così generalista, che non ha il senso dello Stato, che scrive sulla propria bandiera “tengo famiglia”, che si divide in Montecchi e Capuleti, in bianchi e neri, guelfi e ghibellini, un popolo che proclama “Franza o Spagna purché se magna”, che – diciamolo francamente – cambia bandiera fin troppo facilmente e preferisce la polemica chiassosa alla serena valutazione, al riconoscimento delle ragioni dell’altro. Ma è anche un popolo che ha saputo dare prova di grandi eroismi in guerra come in tempo di pace; atti di coraggio individuale riconosciuti dal nemico; imprese che sono rimaste nei libri di storia. Ma, appunto, il più delle volte atti individuali, anche se numerosi. Non abbiamo il senso dell’appartenenza, della comunità. Eppure la civiltà occidentale, nata in Grecia, qui si è sviluppata, qui ha messo le radici del diritto, qui nasce l’orgoglioso “civis romanus sum et latine loquor”. Oggi, per riconoscere ufficialità all’Inno nazionale, all’Inno di Mameli, abbiamo impiegato 70 anni!
Si temono, dunque, il rinascere del fascismo, gli atteggiamenti inneggianti al passato (e ormai morto) regime, il pericolo per la democrazia. Ma c’è da chiedersi: quanto si è veramente fatto sulla strada della democrazia? Fermo restando che la condanna della dittatura – di ogni dittatura, però - deve essere chiara e inequivocabile, vogliamo chiederci perché la democrazia, o meglio, la gestione della democrazia desti ancora, dopo settanta anni di vita, tante riserve? Il cosiddetto populismo nasce perché è una moda o perché la gente è insoddisfatta da una democrazia gestita in modo sempre più lontano dalle esigenze autentiche del popolo? Il fascismo va capito nel suo tempo, va storicizzato, non “scusato” ma compreso. E venne compreso perfino dai suoi avversari, sia interni che stranieri. Certo è stato un male per lo sviluppo della democrazia, ma forse il male minore. Per vent’anni. La democrazia in Italia ha invece settanta anni di vita, ma il Paese è nelle condizioni in cui lo vediamo quotidianamente: sfiduciato, sempre più lontano dalla politica, riproponendo quella scissione già nota di “paese reale e paese legale”, sempre più rassegnato; rassegnato alle tasse, ai disservizi, all’immigrazione incontrollata, al declino. E’ proprio perché crediamo nella democrazia che dobbiamo fare, veramente, i conti con la storia una volta per tutte, dicendo BASTA. Basta con le recriminazioni, con il rinfacciarci reciprocamente un passato che è passato, che non va dimenticato, certo, ma che non deve neppure essere alibi per il presente, né condizionare il nostro futuro.
A. F. V.