L’ultimo 21 dicembre, con il cosiddetto ingresso della Slovenia nel trattato di Schengen, si è consumata l’ennesima pioggia di celebrazioni, soprattutto a Trieste, dove è stato inneggiato con autentici fiumi di parole alla nuova amicizia tra Roma e Lubiana, alla "caduta" di un confine storico che avrebbe aperto una nuova era di pace e di prosperità, e naturalmente, all’abbattimento di vecchi steccati, anche sul piano psicologico. Il quotidiano locale, non contento dell’orgia di parole che aveva già dedicato alla questione, è uscito con un inserto di venti pagine confezionato per la circostanza, grazie all’apporto di penne prestigiose come quelle di Claudio Magris e di Predrag Matvejevic, ed alla giustificazione buonista offerta dalla presenza di parecchi esponenti della classe politica nazionale e regionale.
In realtà, nulla avrebbe giustificato un diluvio di giaculatorie che si era già manifestato nel 2004, quando la Slovenia era entrata a far parte dell’Unione Europea e lo stesso Romano Prodi, all’epoca Presidente della Commissione, era corso a Gorizia per dispensare a destra ed a manca i suoi celebrati sorrisi e le sue affermazioni scontate circa l’importanza della svolta storica che si stava attuando, senza dire che più tardi la cosa si era ripetuta quando Lubiana aveva proceduto alla già programmata sostituzione del tallero con l’euro, salvo provarne direttamente, di lì a poco, i duri effetti sui prezzi e sul costo della vita, già sperimentati in Italia.
Parecchi personaggi anche autorevoli si sono sciacquati la bocca nel ripetere ad oltranza che il 21 dicembre sarebbero finite divisioni ed incomprensioni, grazie alla scomparsa del vecchio confine, che naturalmente non è affatto caduto. Infatti, con l’adesione a Schengen, da considerarsi comunque benvenuta per le positive conseguenze di ordine pratico, se non altro per lo snellimento dei traffici di frontiera, la Slovenia ha semplicemente fatto proprio il principio europeo di libera circolazione: tutto sommato, un atto dovuto, a seguito dell’ingresso nell’Unione di tre anni or sono. Caso mai, si potrebbe aggiungere qualcosa sulle preoccupazioni indotte da una mancanza di controlli che favorisce l’immigrazione di non pochi soggetti indesiderabili, ma questo è un altro discorso.
Qui, preme sottolineare come non sia accaduto alcun fatto di rilevanza straordinaria, pur potendoci associare alla soddisfazione del mondo industriale e commerciale per le facilitazioni che derivano al sistema economico, e indirettamente a chiunque, da una decisione ormai dovuta "ope juris ac necessitatis". Del resto, assimilare l’allargamento di Schengen alla Slovenia, come è stato fatto con enfasi davvero soverchia, ad un’opera di pacificazione e di comprensione reciproca ormai indilazionabile, è quanto meno surreale, visto che concetti analoghi erano stati espressi non soltanto nel 2004, ma già nel 1975, quando il trattato di Osimo, regalando alla Jugoslavia la cosiddetta Zona "B" del TLT con un atto in cui erano ravvisabili gli estremi dell’alto tradimento, all’epoca punibile con l’ergastolo, era stato presentato come strumento idoneo a chiudere il contenzioso ancora in essere, ma prima ancora, a stringere nuovi vincoli di amicizia, sia pure tra sistemi politici ed istituzionali del tutto diversi.
Il mondo degli esuli giuliani e dalmati, almeno in parte, si è correttamente dissociato dalle "feste" che hanno caratterizzato l’evento, da entrambe le parti del confine, ed ha ricordato con sobrie iniziative un dramma le cui ferite, a più forte ragione, sono ben lungi dall’essere rimarginate: non solo perché i suoi diritti sono clamorosamente negati, come ha confermato emblematicamente, negli stessi giorni del gaudio italo-sloveno, l’approvazione definitiva, in sede di legge finanziaria, di un provvedimento retroattivo che nega il diritto degli esuli a fruire pienamente dei benefici pensionistici statuiti sin dal 1985, facendosi beffa di una costante giurisprudenza ad essi favorevole, compresa quella di Cassazione; ma prima ancora, perché le persecuzioni ed i torti che furono subiti nella stessa Italia matrigna sono ben lungi dall’essere stati riconosciuti.
Qualcuno obietterà che l’istituzione sia pure tardiva del "Giorno del Ricordo" ha sopperito a tale obbligo morale, ma il rilievo non appare oggettivamente condividibile, alla luce di fatti concreti che la declassano ad evento di facciata, privo di contenuti reali. Gli esuli non sono stati indennizzati delle perdite subite, compresa quella eticamente prioritaria delle tombe, né potranno esserlo a seguito dell’adesione slovena a Schengen, che nulla cambia nella loro triste vicenda, tanto più amara visto che oltre 60 anni non sono stati sufficienti a promuovere una vera giustizia, e che, al contrario, hanno introdotto nuove discriminazioni. Soprattutto, non è mai caduto il muro di gomma costruito sulla pervicace incomprensione di una scelta davvero plebiscitaria dell’esilio, dettata da principi universali di giustizia e di civiltà, e dalla necessità vitale di sfuggire alla pulizia etnica voluta da Tito per giustificare le pretese jugoslave al tavolo della cosiddetta pace.
Per farla breve, si inneggi pure, se possibile in toni meno enfatici, e conformi alla reale dimensione dell’avvenimento, alla caduta delle garitte e delle brevi zone di nessuno che le separavano, e non certo di confini che restano giuridicamente e sostanzialmente tali pur nell’ambito dell’Unione, una realtà istituzionale che, giova rammentarlo ad uso degli ignari e degli immemori, non è uno Stato federale unico; ma nello stesso tempo non si offendano ancora una volta gli esuli, affermando "in alto loco", con un falso davvero totale, che le posizioni assunte dalla loro maggioranza in occasione del 21 dicembre avrebbero un carattere "estremista", se non anche "marcatamente di destra". Fra l’altro, è appena il caso di ricordare che in un contesto democratico, o presunto tale, tutte le opinioni espresse nell’ambito di un civile confronto dovrebbero avere pari diritto di cittadinanza. O no?
Carlo Montani