L’ITALIA E LA SVOLTA ANTIEBRAICA DEL ’38 - Numero 21

 

Come hanno riconosciuto, autorevoli storici del calibro di George L. Mosse, l’autore de "la nazionalizzazione della masse" la più completa opera sul fenomeno dei totalitarismi contemporanei (ed. il Mulino, Bologna 1975); Renzo De Felice, il più profondo conoscitore della storia degli ebrei sotto il fascismo (ed. Einaudi, Torino 1993) e il rabbino Elio Toaff nel suo libro " Essere ebreo" (ed. Bompiani, Milano 1996, pag. 134); tra i Paesi europei l’Italia è uno di quelli che meno ha conosciuto il razzismo. A differenza del nazionalsocialismo che traeva la sua essenza nella purezza della razza (razzismo biologico); il Fascismo non fu ideologicamente razzista, infatti, nella carta di Piazza San Sepolcro del ‘19, vero e proprio manifesto cui s’ispirò il fascismo nelle sue varie fasi (movimento, regime e sociale); di razzismo non vi è traccia. Mussolini stesso ebbe a dichiarare in più occasioni che in Italia non esisteva una questione ebraica. Così come molti italiani, diversi ebrei aderirono al fascismo dove occuparono anche posti di rilievo, basti pensare all’ebrea Margherita Sarfatti che fino al 1936 diresse la rivista ufficiale del Fascismo "Gerarchia" e al giornale "La nostra Bandiera" diretto da Ettore Ovazza punto di riferimento dell’ebraismo fascista. I rapporti tra istituzioni ebraiche, che godettero d’ampia autonomia, e regime fascista furono, per quanto possibile, improntati al reciproco rispetto. Diversi furono i colloqui che Sacerdoti, presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane, ebbe con Mussolini che portarono, ad esempio nel campo dell’insegnamento, all’istituzione di sezioni elementari ebraiche nelle scuole comunali e alla modifica dei manuali di religione ad uso dei bambini ebrei nelle scuole statali. Quando, con l’ascesa al potere di Hitler in Germania, riprese vigore in tutta Europa l’antiebraismo l’Italia fascista, a differenza delle democratiche Francia e Inghilterra che si chiusero a riccio, aprì le sue frontiere e furono circa diecimila i profughi ebrei provenienti da Germania, Polonia, Ungheria e Romania che trovarono rifugio nel nostro Paese; altri quattromila ebrei poterono emigrare in Palestina attraverso il porto di Trieste grazie alla collaborazione delle autorità italiane. Mussolini, per un certo periodo, abbozzò anche l’idea di costituire in Etiopia, colonia Italiana, l’embrione della futura nazione ebraica. Uniche voci dissonanti di un certo rilievo provenivano da Giovanni Preziosi e dalla sua rivista "La vita italiana", il cui antisemitismo si collocava nella tradizione cattolica (non a caso Preziosi era un ex sacerdote) e da Interlandi che attraverso le pagine del "Tevere" riproponeva i luoghi comuni dell’antiebraismo classico. Argomenti che in ogni caso ebbero scarsa presa sull’opinione pubblica italiana e ancor meno considerazione da parte della cultura fascista. Improvvisamente (in verità qualche accenno vi fu nel corso dell’anno precedente) nel 1938, a seguito di una deliberazione del Gran Consiglio del Fascismo del 6 ottobre, furono emanate le famigerate e mai tanto deprecate leggi razziali la cui essenza spirituale mirava tuttavia ad emarginare gli ebrei senza perseguitarli, contrariamente a quanto avveniva in Germania, in Europa orientale e, in maniera strisciante, in alcune democrazie occidentali. La Svezia, ad esempio, nello stesso periodo inviò in Germania una delegazione del suo parlamento per studiare la legislazione razziale tedesca e, insieme a Norvegia e Danimarca, attuò una politica eugenetica che portò tra il 1934 e il 1976 alla sterilizzazione coatta di oltre 106.000 persone, in prevalenza donne, ritenute geneticamente pericolose per la purezza della razza (Gianni Moriani " il secolo dell’odio" ed. Marsilio Padova, 1999). Durante la guerra, nonostante le pressanti richieste da parte tedesca, Mussolini si rifiutò sempre di consegnare gli ebrei italiani ai nazisti e diede disposizioni per attuare, nelle zone controllate dall’esercito italiano (Tunisia, Grecia, Balcani e sud della Francia); vere e proprie forme di boicottaggio per sottrarre gli ebrei ai tedeschi. Solo nel periodo 43/45 con la Repubblica Sociale Italiana, nata per riscattare l’onore d’Italia e per porre un freno ai propositi vendicativi di Hitler dopo il voltafaccia badogliano dell’8 settembre, la situazione cambiò: essendo, di fatto, l’Italia centro settentrionale un protettorato tedesco, i nazisti poterono imporre facilmente la loro volontà fatta di rastrellamenti e deportazioni di massa. Ma a differenza di altri paesi occupati, come ad esempio la Francia di Vichy, dove i nazisti poterono attuare il loro programma di sterminio degli ebrei con il pieno appoggio delle autorità locali, in Italia i tedeschi dovettero provvedere in prima persona per la ferma opposizione del governo fascista che negò sempre la sua collaborazione. La partecipazione dei fascisti ai rastrellamenti degli ebrei fu, infatti, sporadica e opera di formazioni irregolari che sfuggivano ad ogni controllo. Cosa indusse Mussolini ad imboccare la strada dell’antisemitismo che portò alla espulsione degli ebrei dagli incarichi pubblici e a negare loro molti diritti civili, è ancora oggi oggetto di discussione tra gli storici onesti. Scartata la tesi marxista della contiguità ideologica con il nazismo, che come abbiamo visto è totalmente priva di fondamento (De Felice afferma che le differenze ideologiche tra i due regimi sono ben maggiori delle affinità); quella più accreditata fa riferimento all’alleanza con la Germania e al conseguente influsso nefasto che le teorie di Rosenberg ebbero sul finire degli anni Trenta anche in Italia e che andarono a risvegliare il mai sopito antisemitismo di matrice cattolica (accusa di deicidio). Le leggi razziali del ’38 rappresentano una macchia indelebile nella storia e nella coscienza del nostro Paese, ma sarebbe ingiusto e storicamente scorretto non riconoscere che se negli anni bui della Shoah migliaia di ebrei ebbero salva la vita fu grazie a Mussolini.

Gianfredo Ruggiero
Presidente del Circolo culturale Excalibur di Lonate Pozzolo