SOMMARIO DELLA SEZIONE:
- IL PORCO
- ESAME DI MATURITA’
- ANDATE TUTTI A... FARVI BENEDIRE
IL PORCO
Il "porco", simbolo di opulenza (mangi come un porco, sei grasso come un porco); ha rappresentato per alcune zone di Italia una fonte di sostentamento primario. Il nostro reportage si svolge in un paesino del sud, Casalbuono, in provincia di Salerno, ai confini con la Basilicata; alla ricerca di quell’antica tradizione che è l’uccisione del "porco". Le norme igienico - sanitarie, da un lato, le nuove costruzioni abitative e la ristrutturazione di quelle vecchie, hanno allontanato il maiale dalle case : fino agli anni 80 il 90% degli abitanti teneva sotto casa un locale adibito a porcile. L’animale veniva "governato" - termine indicato per "dar da mangiare" - rigorosamente con i prodotti della terra: bietole, patate, castagne, ghiande, granoturco, crusca ed un particolare tipo di erba medica. I piatti e le pentole venivano sgrassate a fine pasto in acqua calda e la "jotta" - il liquido che se ne ricavava - con i rimasugli del mangiare integrava l’alimentazione del maiale. Soprattutto nelle famiglie numerose, che una volta erano tante, pur nella scarsità di cibo, questa "jotta" non mancava mai. L’uccisione del "porco" seguiva scrupolosamente un rituale tramandatosi da diverse generazioni. Grazie alla benevolenza di una famiglia di pastori - agricoltori, che vive in un insediamento fuori dal centro abitato, abbiamo potuto rivivere quest ’ evento. L’appuntamento è alle cinque del mattino di sabato 27 dicembre 2003. I monti sono tutti innevati e qualche cumulo si trova ancora ai bordi della strada. Il termometro segna due gradi sotto lo zero. Veniamo accolti da un signore anziano con un pastrano nero che lo avvolge fino al mento e che ci invita nella sala dove verrà consumato il "sacrificio". All’interno la moglie, tutta vestita di nero (ci spiegheranno poi che il colore nero è il lutto che porta per la morte di un figlio avvenuta venti anni fa in Svizzera su un cantiere edile e che porterà per tutta la vita); due dei quattro figli con le rispettive mogli e un vicino di casa. Si è soliti in queste occasioni aiutarsi tra parenti ed amici. Un grande camino acceso con su un fusto di latta, una volta contenitore di olio per automobili, pieno di acqua, almeno cento litri. Appoggiata ad una parete, la madia ( "fazzatora" è il termine dialettale del posto); un banchetto di legno alto quaranta centimetri, largo altrettanto e lungo circa un metro e mezzo è al centro della stanza. Sul soffitto delle travi di legno dalle quali pendono degli anelli di ferro che reggono delle piccole assi; serviranno per appendere i salumi. Scendono anche delle funi inserite in una carrucola non in ferro ma in legno, come si usava un tempo. Il tepore dell’ambiente e l’accoglienza ricevuta ci fanno dimenticare il mondo esterno. Sembra di vivere una realtà, forse raccontataci dai genitori nelle lunghe serate di inverno passate vicino al camino, frutto dei nostri trascorsi meridionali. Il sogno dura poco, bisogna "consumare il sacrificio". Veniamo invitati ad andare a prendere il "porco". Scendiamo tre scalini di legno, che scricchiolano pesantemente sotto i nostri piedi e arriviamo nel porcile. Un maiale di almeno centocinquanta chili con altri due maialini: uno verrà venduto, l’altro servirà per il prossimo anno. La signora in nero con un cesto pieno di ghiande che muove animatamente invita il maiale a seguirla. Forse presago di ciò che l’aspetta, il maiale non si muove. Uno dei figli gli si pone dietro e cerca di spingerlo: niente da fare. Gli viene allora legata una zampa posteriore con una lunga corda : capiamo che è una tecnica per far sì che il maiale non venga preso a braccia e portato sullo scanno del sacrificio. Uno tira la corda, il maiale cade, si rialza, l’altro lo spinge di dietro, la signora in nero con le ghiande fa sempre da battistrada. Salire i tre scalini diventa un’ impresa ardua. Uno lo prende per la coda, due per le orecchie, l’altro tira la corda. E’ fatta! Il maiale è pronto a seguire il suo destino. La signora in nero ha riposto il suo cesto di ghiande e delle copiose lacrime scendono sul suo viso rugoso. E’ quella che per tutto l’anno gli ha portato da mangiare, è colei che al maiale gli diceva: "bello mio, spostati, devo pulire". L’affezione creatasi fra i due è la spiegazione delle lacrime. "Mors tua vita mea" : è vero che ho bisogno di te per la mia sopravvivenza, ma è altrettanto vero che per me sei stato un compagno con il quale ho condiviso quelle gioie che non potevo esprimere; quei dolori che forse senza di te sarebbero rimasti per sempre nelle mia anima. Il dolore della signora in nero è un dolore vero: "passerà" - ci dice, mentre le lacrime non si asciugano. Arriva il momento più drammatico. Anche noi che pensavamo di osservare distaccati questo evento ne veniamo coinvolti. La macchina fotografica e la cinepresa stentano ad accendersi. Rintanati in un angolo della stanza riprendiamo sgomenti la scena. Il maiale, steso per terra, con le zampe posteriori ed anteriori legate, viene issato sullo scanno. Due uomini lo tengono fermo, mentre uno gli lega il muso con uno spago. Il signore con il pastrano, prende un coltello molto simile ad uno stiletto e lo infila nel collo dell’animale. Il maiale emette dei grugniti e tenta di divincolarsi. La ferrea presa dei tre uomini gli impedisce ogni possibile movimento. La signora in nero non osa guardare e fa finta di attizzare il fuoco. Le altre due donne escono dalla stanza per rientrare subito dopo con una bracciata di legna. Il sangue cola dalla gola del porco in un catino di plastica. E’ fatta! Le zampe posteriori si contraggono e si rilassano cinque, sei volte accompagnati dagli uomini preposti all’immobilità del maiale. Un ultimo grugnito ed un silenzio surreale si impadronisce della stanza. Una signora porta via il sangue bollente, l’altra la segue. Uno dei figli prende una pannocchia da un filare appeso in un angolo del soffitto, che non è più alto di due metri e trenta, e sgranatola infila il tutolo nella gola del porco che ora non sanguina più. Le due signore, rientrate con una moka di caffè, una bottiglia di anice e un vassoio con su tazzine e bicchierini, molto simili nell’aspetto ai ditali che le nostre nonne mettevano al dito quando cucivano a mano, versano da bere per tutti. Beviamo volentieri mentre il signore con il pastrano ci racconta: "l’uccisione del porco è un evento che vivo da ottant’ anni, fin da quando, bambino, sentivo i genitori alzarsi di notte e in pigiama li seguivo trepidante, rannicchiato in un cantuccio per seguire questo evento." Dopo la tazza di caffè e il "ditalino" di anice bisogna andare avanti. Dallo scanno il maiale viene ribaltato nella madia che nel frattempo è stata sdraiata a lato. Un tonfo sordo e si ritrova steso su un lato. Slegate le quattro zampe, a forza di braccia viene adagiato sulla pancia, con la schiena rivolta in su. Il signore anziano passa una mano sulla schiena del maiale, quasi volesse accarezzarlo. E’ un gesto che serve per sentire le setole più dure. Si sofferma circa a metà della schiena ed una alla volta ne estrae una ventina. Verranno date al vecchio ed unico calzolaio del paese che le userà per fare la punta allo spago che, impregnato di pece, userà per cucire a mano gli scarponi dei montanari. La fase che segue serve a togliere tutti i peli che ricoprono il corpo dell’animale. Con un secchiello di latta viene prelevata acqua bollente dal fuoco e, partendo dall’alto, viene fatta scorrere lungo tutta la schiena. Questa operazione serve per ammorbidire la pelle e viene ripetuta più volte. Quando le setole, tirandole, vengono via facilmente, due uomini ai lati del porco, con un "coppo", un mescolo senza manico, cominciano a grattare fino a mettere a nudo la pelle. Finita questa operazione, il maiale viene messo a pancia in su. Gli vengono praticati dei tagli nelle zampe posteriori e con l’aiuto delle mani vengono scoperti i tendini delle caviglie : serviranno per infilare i ganci appesi alla fune che scorre in quella carrucola fissata alla trave. Viene così issato ed ora pende a testa in giù con le zampe in alto divaricate. Sono le sette del mattino e comincia ad albeggiare. Un sinistro cigolio ed ecco due bambini, in pigiama di flanella, fare la loro apparizione. "Ecco i miei nipotini" ci dice il signore anziano. Intirizziti dal freddo si scaldano al calore del camino. Uno dei due figli, con un coltello questa volta a larga lama, taglia la testa al maiale. Poggiata sullo scanno gli viene aperta la bocca e gli viene infilato un grosso limone. Alla domanda sul perché di questa cosa il signore anziano ci dice: "quando andremo a sezionare la testa del maiale, se la bocca fosse chiusa non riusciremmo con il coltello ad asportare tutte la parti commestibili". Le due signore anziane portano via la testa che ritroveremo all’uscita sul davanzale del piano superiore. I due bambini, come in un copione già visto, o forse raccontato, si pongono ai lati del maiale pendente ed afferrate le zampe le divaricano. Capiamo ora anche il perché di questo. Uno degli uomini con un coltello affilatissimo, partendo dall’alto, comincia prima ad incidere e poi a tagliare la parte del sottopancia del maiale fino ad arrivare in basso. Se le zampe anteriori non fossero state divaricate avrebbe avuto difficoltà a compiere l’operazione. Il maiale, ripulito di tutte le interiora, è riposto in un canestro di vimini che viene portato via dalla signore. Il maiale ora è li pronto per essere diviso in due metà. Nel frattempo, la vescica, unico elemento fuori dalla cesta, viene soffiata con un maccherone fino a diventare come un grosso pallone. Fatta essiccare, appesa alle travi, servirà come contenitore per la conservazione della sugna. Armatosi di ascia, uno degli uomini spacca il maiale, che ora pende appeso in due metà. Il vecchio allenta le funi della carrucola e i figli caricatosi ognuno una metà dell’animale sulle spalle, vanno a riporlo su un vecchio tavolo di legno con su un bianco lenzuolo. Fuori ormai è chiaro. Salutiamo gli uomini e i bambini e ci allontaniamo in macchina per tornare in albergo. Percorsi non più di duecento metri ci incuriosiscono delle donne che di buon mattino e con il freddo che fa lavano in un fiumiciattolo. Rallentiamo e dal finestrino abbassato, riconosciamo due delle signore che avevano partecipato poc’anzi all’uccisione del porco. Ci fermiamo e avvicinatoci, notiamo che non lavano panni ma qualcosa di strano. Ci spiegano che sono gli intestini del maiale e che una volta puliti e sistemati serviranno per insaccare la carne. Un arrivederci e colazione in albergo. Alle otto e trenta salutiamo Valerio, la nostra guida locale, con la promessa di rivederci fra due giorni, per andare ancora dai signori del maiale e scoprire altri segreti che seguiranno l’uccisione del porco. Alle sette del mattino di lunedì 29 dicembre, Valerio viene a prenderci per riportarci dai signori del maiale. Strada facendo ci spiega che questa volta assisteremo alla sfasciatura del porco ovvero alla separazione di tutte le sue parti. Venivamo accolti nella sala da pranzo dove insieme al caffè e alla anice ci viene offerta una torta con all’interno una pasta di colore scuro. Valerio ci spiega che è la torta di "sanguinaccio" fatta cioè con il sangue prelevato dal maiale. La sera dell’uccisione, le donne radunate intorno al fuoco, preparano questo sanguinaccio. Il sangue viene fatto bollire per quasi un’ora in un pentolone rivestito all’interno da una patina di stagno (compito questo affidato allo stagnaro, che una volta girava per le varie masserie e la sera rientrava a dorso del suo asino carico della merce ricevuta a compenso per il suo lavoro). Fatta evaporare tutta l’acqua, resta nel pentolone la parte solida del sangue che le donne provvedono a mescolare con zucchero, cioccolato e cannella. Curiosi di questa torta, proviamo ad assaggiarla. Ha un sapore veramente gradevole e la mangiamo volentieri. Ritorniamo nella stanza del sacrificio e il signore anziano, questa volta con un grembiule bianco, armato di vari coltelli, sfascia "con mani abili" il maiale. Ricava prima due prosciutti dal posteriore dell’animale e poi separa dalle cotenne tutte le altre parti. A mano a mano che i pezzi sono pronti vengono portati alle donne che, sedute ad un tavolo rotondo, provvedono a fare a pezzettini la carne. Ottenuta una discreta quantità viene portata al centro del tavolo e viene insaporita con polvere di peperone dolce, che servirà a dare il colore, sale e finocchietto selvatico. Girata e rigirata più volte viene insaccata nei budelli che hanno forme diverse, secondo l’uso preposto: salcicce o soppressate. I salumi vengono poi appesi con uno spago alle assicelle che pendono dalla travi. Valerio ci spiega che niente viene buttato dal maiale. Il grasso, raschiato dalla cotenna, verrà fatto sciogliere sul fuoco e conservato dopo essere stato colato. Raffreddandosi si solidifica e verrà fatto sciogliere di nuovo per poter ricoprire i salumi una volta essiccati (ci vogliono venticinque/trenta giorni secondo la temperatura esterna). Una menzione particolare spetta ai ciccioli, "cicoli" nel dialetto casalbonese. Quando viene separata la carne dal grasso, pur eseguita da mani esperte, qualche parte di carne resta attaccata. Nella liquefazione del grasso, le piccole parti di carni restano solide. Raccolte dopo la colatura, verranno anch’esse conservate sotto sugna e serviranno per insaporire patate, peperoni e frittate. Il vecchio racconta: "in tempo di guerra" (il riferimento è alla seconda guerra mondiale) i boscaioli ed i contadini che raggiungevano a piedi il posto di lavoro, anche sei e più chilometri, mettevano in tasca i ciccioli, e strada facendo li mangiavano uno alla volta". La sugna era il condimento di tutte le pietanze, fritte o bollite: l’olio costava molto. Continua il vecchio: "oggi tutti abbiamo problemi di stomaco e la sugna non si usa più come condimento. Io, però, ogni tanto da mia moglie mi faccio preparate patate fritte e peperoni del nostro orto, conservati sotto aceto, con i ciccioli e la sugna". Gli occhi gli si inumidiscono pensando ai tempi andati, quando nelle feste si condiva la pasta fatta in casa con il sugo di salciccia e cotica arrotolata. "Come erano buoni i fagioli cotti vicino al fuoco nella pignatta di terracotta. Che dire delle minestre con dentro l’osso del prosciutto? Una vera delizia". "Va beh!", conclude il vecchio, "speriamo che i giovani facciano tesoro delle cose che con tanti sacrifici lasciamo loro in eredità, anche questa del maiale".
Vincenzo Ponzo
ESAME DI MATURITA’
Trenta tazzine di caffè rischiano di far saltare l’esame di maturità a Vincenzo, studente all’ ITIS di Sala Consilina (SA).
L’esame di maturità resta impresso nella mente di ogni studente: le angosce, le notti insonni, la corsa a preparare l’ultimo capitolo della materia di esame. Ognuno ha un ricordo particolare.Questo che raccontiamo non accade tutti i giorni. Dopo circa due ore dall’inizio della prima prova scritta di italiano il bidello, chiamato dai professori, chiede agli studenti cosa vogliono bere.Ventisette studenti e tre professori chiedono una tazza di caffè,Vincenzo una tazza di latte. Dopo venti minuti due bidelli arrivano con le ordinazioni. Vincenzo dopo un po’ comincia ad avere dei conati di vomito, senza più riuscire a scrivere. E’ allergico al caffè e l’aroma sprigionata dalle trenta tazzine di caffè in una stanza non molto grande gli ha procurato quell’ effetto. Convincere i professori ad uscire dall’aula non è stato semplice ma di fronte ad uno studente che non riesce più ad andare avanti hanno trovato la giusta soluzione: Vincenzo fuori dall’aula su un terrazzo vicino guardato a vista da un bidello. Arieggiata l’ aula ha potuto riprendere la sua fatica d’esame.
V.P.
ANDATE TUTTI A... FARVI BENEDIRE
Scandaloso! Un popolo unito da vincoli di parentela si spacca dopo l’elezione del sindaco. S’invoca l’intercessione della Madonna. Dopo l’elezione del sindaco in un paesino in provincia di Salerno gli elettori delle opposte fazioni (due le liste civiche della contesa) continuano la loro battaglia escludendosi a vicenda. Parenti presenti nei due schieramenti non si guardano più. Madri disperate non possono più invitare a pranzo i figli perché le nuore si guardano in cagnesco. Nell’unico circolo del paese, centro d’aggregazione di tutta la comunità, molti non entrano più. Un muretto lungo la S.S. 19 delle Calabrie che accoglieva tutti i concittadini in vena di fare quattro chiacchiere è diviso a metà. Casalbuono, questo il paese della contesa, nell’entroterra campano ai confini della Basilicata, situato su una collina a 650 metri sul livello del mare, conta 1300 abitanti con 970 elettori, almeno 100 domiciliati fuori; i più per motivi di studio. Si conoscono tutti per nome e cognome e ognuno sa la storia dell’altro. Nell’area non vi sono insediamenti produttivi e i residenti sono in prevalenza pensionati. Un’oasi felice per l’aria pura e fresca, ma soprattutto per l’accoglienza riservata ai tanti paesani residenti altrove che d’estate vanno a trascorrervi le ferie, è diventata "una piazza d’armi". - "E’ una vergogna!" - Tuona un insegnante da sempre impegnato politicamente. - Questa volta non ho voluto schierarmi da nessuna parte e per il semplice fatto di essere andato a passeggio con un candidato mi hanno accusato di aver fatto propaganda per quella lista; così sono guardato in cagnesco sia dai vinti che dai vincitori. - "Auguri per la vittoria di tuo nipote." - Dice un’anziana signora ad una sua amica. - "Con che faccia tosta osi farmi gli auguri tu che non l’hai votato!" Così anche quei piccoli gruppetti che nelle lunghe serate d’estate si ritrovavano fuori dell’uscio rischiano di scomparire. -"Vi è incertezza anche sul ferragosto casalbuonese che da molti anni un gruppo d’amici organizza a beneficio di tutta la comunità". Queste testimonianze sono rappresentative di una situazione che può diventare ancora più pesante se la neo-eletta amministrazione comunale non saprà con trasparenza e spirito critico essere al servizio d’ogni cittadino. "Un pellegrinaggio alla cappella della Madonna della Consolazione elevata a santuario diocesano l’8 settembre 2002 e che in quell’occasione aveva visto tutti i casalbuonesi uniti in un abbraccio fraterno non farebbe male a nessuno e chissà che la benedizione del vescovo di Teggiano mons. Angelo Spinillo non faccia rinsavire tutti".
V.P.