SOMMARIO DELLA SEZIONE:
Anniversari
Il due novembre ricorreva il trentaquattresimo anniversario della morte di Pier Paolo Pasolini: il tempo non ha placato le polemiche ed anzi, l’evento è stato ricordato ancora una volta con ampiezza di celebrazioni, dispute e rimpianti. Non meno vivace è stata la grancassa battuta dalla grande stampa d’informazione, anche in Italia, sull’ultima trovata discografica di Paul Mc Cartney, che ha rivisitato taluni grandi successi del 1975, riportandosi ai vertici delle classifiche di vendita. Nell’età dei consumi e nella migliore delle ipotesi, di una pervicace cultura di sinistra incurante di ogni pur motivato revisionismo, non c’è da stupirsi. Si dà il caso, peraltro, che tali avvenimenti abbiano coinciso col trentaquattresimo del trattato di Osimo, firmato da Rumor e da Minic il 10 novembre nel clima da consorteria che le cronache d’epoca non mancarono di evidenziare: l’Italia rinunciò senza contropartite ad una quota significativa del proprio territorio perché l’ordine di scuderia era quello di chiudere senza ulteriori indugi ogni parvenza di contenzioso con la Jugoslavia. Non a caso, fu approvato senza soverchi intralci dai due rami del Parlamento, nonostante parecchie autorevoli voci che si levarono a denunciare l’ignominia del tradimento: un reato che, all’epoca, era passibile dell’ergastolo. Stavolta, l’anniversario è passato sotto silenzio. Effettivamente, la trentaquattresima ricorrenza di un evento non induce manifestazioni di particolare enfasi, come quelle che per antica tradizione si riservano ai decennali, ai centenari, e via dicendo. Nondimeno, se proprio si dovevano suonare le trombe per singoli personaggi, sia pure di qualche spessore nel loro campo di attività, non si vede perché non si sarebbe potuto fare altrettanto per l’anniversario di un evento d’interesse generale che è stato un autentico schiaffo al giure comune ed al buon senso, perché non era mai accaduto che uno Stato moderno rinunciasse ad una porzione di sovranità a favore di un altro, senza alcuna reale motivazione e senza alcuna ragione realmente condividibile. Eppure, nell’anno di grazia 2009 esiste un Governo di centro-destra o presunto tale, da cui sarebbe stato logico attendersi qualcosa di diverso, se non altro per salvare le forme e riconquistare un minimo di credibilità nei confronti del movimento giuliano e dalmata (e non solo); già catafratto da una serie di comportamenti che non sarebbe azzardato qualificare alla stregua di vere e proprie angherie istituzionali. Vale la pena di ricordare che nel 1975 l’Italia non era più il partner debole del 1947, quando aveva dovuto subire l’infamia del diktat. Al contrario, almeno nei confronti di una Jugoslavia che si stava già avviando verso il dissesto, e lo sfascio che ne sarebbe conseguito, era uno Stato economicamente progredito, sebbene sul piano politico fosse stato condizionato dalla "non sfiducia", dalle "convergenze parallele" e da analoghe amenità. In altri termini, chi cominciava a vacillare era proprio Tito, sebbene l’Occidente fosse incapace di comprenderlo, o meglio non intendesse farlo, alla luce di una politica tradizionalmente miope che nei palazzi romani diventava tremebonda. Più tardi, qualcuno si sarebbe accorto dell’errore, ma ormai i giuochi erano stati fatti, e la nuova parola d’ordine sarebbe diventata quella secondo cui è bene scordarsi del passato, alla maniera dei guitti. D’altra parte, l’Italia non ha avuto statisti della tempra di un Kohl, capaci di "cogliere la fortuna" di machiavelliana memoria all’atto della sua veloce apparizione, ma - nella migliore delle ipotesi - boiardi troppo pensosi del proprio "particulare" o di quello delle rispettive fazioni. In questo senso, il silenzio su Osimo è motivo di amarezza, ma non di sorpresa, e corrisponde perfettamente, non già all’antico disegno di sopire le motivate attese giuliane e dalmate, ma a quello più attuale di stendere su di esse una pietra tombale, senza recitare nemmeno un "de profundis". La madre dei "vigliacchi d’Italia", come sarebbero definiti da Carducci, è sempre incinta, ma le bandiere delle giustizia, piaccia o meno, non saranno facilmente ammainate.
M.C.
Nuova Direttiva Macchine dell’Unione Europea:
un’ulteriore opportunità di cooperazione internazionale
Il 29 dicembre 2009 è entrata in vigore la nuova Direttiva Macchine dell’Unione Europea, che ha introdotto alcune importanti novità in materia di organizzazione del lavoro e di sicurezza, sulle maggiori delle quali è opportuno attirare le opportune attenzioni, perché costituiscono un momento importante di verifica circa le reali potenzialità della cooperazione internazionale. Rispetto alla normativa precedente, risultata per diversi aspetti perfettibile, è stato introdotto l’obbligo di marcatura per le cosiddette "quasi macchine", intese come strutture in grado di operare senza l’apporto diretto di un motore, ma anche per talune nuove accessioni strumentali come gli ascensori da cantiere e diverse attrezzature, fra cui gli strumenti di sollevamento, quali catene, freni e cinghie. Lo stesso dicasi per gli apparecchi portatili a carica esplosiva. E’ stata introdotta una scadenza di validità delle certificazioni, indicata nel quinquennio dalla data del rilascio. Ciò corrisponde ad un’esigenza di adeguamento imposta dalla forte accelerazione del progresso tecnologico. Per quanto riguarda le procedure, è stato previsto l’obbligo di riportare la documentazione relativa alle valutazioni dei rischi in tutto l’iter progettuale della macchina, ma è stata statuita anche la possibilità di operare nel nuovo regime definito della "Garanzia di qualità completa", che si traduce in un sistema integrato di progettazione, fabbricazione, ispezione finale e verifica operativa, approvato da un Organismo notificato: in pratica, di un "pacchetto" globale, in alternativa alle procedure precedentemente in essere. Non mancano novità a proposito delle sanzioni, che gli Stati membri sono chiamati a predisporre in modo che siano "effettive, proporzionate e dissuasive": un’affermazione vincolante in linea di principio, che peraltro sembra sottintendere possibili regolamenti differenziati da un Paese all’altro, quanto meno nelle more della necessaria armonizzazione, il cui ruolo assume carattere decisivo, sia sul piano giuridico, sia su quello commerciale. Un’ulteriore prescrizione importante riguarda il ritiro delle macchine "potenzialmente pericolose": anche in questo caso, con una semantica non esauriente dal punto di vista descrittivo che implica possibili carenze sul piano dell’ auspicata e doverosa certezza del diritto. Infatti, è stato precisato che possono intendersi per tali, anche macchine prodotte in base a norme armonizzate pregresse: considerazione condividibile in linea di principio, ma non immune da possibili interpretazioni discrezionali, che rendono opportune definizioni oggettive, ed accettate da tutti, dei concetti di potenzialità e di pericolo. Al di là degli aspetti innovativi e dei contenuti problematici a cui è stato necessario accennare, la nuova Direttiva europea intende sopperire alle carenze interpretative che avevano caratterizzato quella precedente, fino al punto che alcuni quesiti proposti dal momento imprenditoriale erano rimasti inevasi. Giova ribadire che la normativa in questione obbedisce, in primo luogo, ad un’esigenza di sicurezza sempre più diffusa, sia per le macchine globalmente considerate che per le singole componenti, a cominciare da quelle elettriche, cui sono state dedicate attenzioni specifiche particolari. In tale ottica, essa costituisce una Dichiarazione di conformità alle varie Direttive dell’Unione Europea, per quanto applicabili e recepite negli ordinamenti statuali. Le Associazioni industriali del settore meccanico europeo hanno predisposto un’ampia serie di Seminari e di Convegni specializzati, in cui sono stati illustrati i contenuti essenziali della Direttiva e le maggiori innovazioni rispetto alla legislazione precedente.
C. M.