Il ministro Tremonti, in una recente esternazione, ha dichiarato che le attività promozionali dei prodotti italiani sono manifestazioni di "folclore" a cui non corrisponde alcun effetto apprezzabile; anzi, in molti casi le quote di mercato del "made in Italy" accusano ricorrenti flessioni. Ciò si deve, da un lato, alla scarsa consistenza del budget, sia in cifra assoluta, sia in rapporto agli investimenti degli altri Stati per promuovere le loro merci; dall’altro, e prioritariamente, alla farragine organizzativa che si traduce in dispersione di risorse ed in accavallamenti di iniziative similari. Tutti sanno che la promozione italiana, compito precipuo dell’ICE, si giova di non pochi Soggetti diversi: gli Uffici commerciali delle Ambasciate e di alcuni importanti Consolati; gli Assessorati regionali alle Attività produttive; le Camere di Commercio, comprese quelle all’Estero e quelle estere in Italia; le Organizzazioni delle categorie maggiori, e via dicendo. Non a caso, Tremonti ha potuto fare riferimento a possibili sovrapposizioni che coinvolgono sette livelli di competenze. Il problema non è affatto nuovo. Anni or sono, lo stesso Presidente Berlusconi aveva sottolineato l’incongruenza del sistema e la necessità di una riforma che mettesse ordine nella materia, con un occhio di riguardo per la priorità della rete diplomatica anche in campo promozionale. Il progetto, al pari di tanti altri, è rimasto in lista d’attesa: verosimilmente, perché si opponeva alla conservazione dello "status quo" e dei tanti interessi maggiori e minori ad esso collegati. In questo senso, la battuta del Ministro ha il sapore di un’amarezza quasi rassegnata. Sta di fatto che l’ICE ha un budget insufficiente, come è stato messo in luce da sempre: la sua incidenza sul valore complessivo dell’export italiano è frizionale, senza dire che due terzi delle disponibilità sono destinati al finanziamento della struttura operativa, costituita dal personale e dagli uffici. Non è un mistero che negli altri Paesi europei, compresi quelli di minore rilevanza economica e commerciale, gli investimenti istituzionali in promozione sia proporzionalmente superiori a quello italiano. Ciò spiega ma non giustifica il fatto che le iniziative "concorrenti" abbiano proliferato, e non elide le responsabilità di una programmazione sostanzialmente nulla. Oggi è facile parlare di folclore, ma le osservazioni qualunquiste, per quanto autorevoli, non risolvono il problema: anzi, finiscono per accentuarlo. In realtà, nel mondo globale del nuovo millennio sarebbe necessario, ancor prima di mezzi finanziari meno effimeri, un ripensamento strategico che conferisca ruoli aggiornati alla cooperazione internazionale: un altro capitolo in cui l’Italia occupa posizioni di retroguardia, con un’incidenza sul prodotto interno lordo inferiore al due per mille e pari ad appena un quarto del pur modesto budget di base. Va aggiunto che la piccola e media impresa, pur costituendo i quattro quinti della struttura produttiva nazionale, finisce per fruire in misura assai modesta sia dei mezzi promozionali in senso stretto, sia di quelli collegati alla cooperazione: ciò, sebbene le aziende importanti siano in grado di ricorrere a risorse proprie, assai più delle minori. Non manca occasione in cui il declino della competitività italiana non venga attribuito al differenziale di costo, con particolare riguardo a quello del lavoro, nei confronti dei grandi Paesi emergenti, primi fra tutti gli asiatici; ma sarebbe il caso di aggiungere che in Italia il prezzo dell’energia supera del 37 per cento la media europea, senza che il problema sia stato oggetto di alcun apprezzabile intervento. Al pari di quanto accade per la promozione, sembra che il Paese venga lasciato in balia di un anacronistico "laisser faire" e quindi, dei cosiddetti poteri forti. Il teatrino della politica continua a deliziare l’uomo della strada con dispute nominalistiche e spesso folcloristiche. Nel frattempo, il sistema economico vacilla, la valorizzazione delle risorse resta un’utopia, i cervelli migliori emigrano e le classifiche mondiali della produttività, della competitività e della sicurezza vedono aggravarsi la posizione italiana, in un triste ruolo di retroguardia. Del resto, se non si riesce nemmeno a coordinare la promozione, o meglio ciò che ne resta, tali risultati non possono sorprendere. Mai come nell’attuale congiuntura, la politica è apparsa lontana dall’antica definizione quale arte di operare per il perseguimento del bene comune, ponendosi al servizio sempre più palese di interessi contingenti e di particolarismi tanto diffusi quanto ignobili. Non è mai tardi per rimediare, ma sarebbe necessaria una rivoluzione morale ad ogni livello, grande o piccolo che sia: ad esempio, in una promozione che si ponga in una vera ottica di servizio, agli antipodi dell’attuale folclore.
M.C.