In questi giorni la stampa ha reso noti i risultati Invalsi dando largo spazio all’inadeguatezza riscontrata nelle prove da parte degli studenti. Non possiamo non parlare di scuola anche qui, perché questi dati non interessano solo la scuola, ma coinvolgono tutto il Paese, la struttura stessa della nostra società. Riportiamo prima di tutto alcune osservazioni apparse sul Sole 24 ore del 12 luglio, a firma di Claudio Tucci. Il quadro è piuttosto sconsolante: “Siamo usciti dal Covid e dalla scarsa qualità della Dad. Ma il gap negli apprendimenti resta elevato, e per l’auspicata inversione di tendenza dobbiamo ancora attendere. La fotografia scattata dall’Invalsi sulle prove 2023 conferma come anche quest’anno uno studente su due esce dalle superiori con competenze inadeguate in italiano e matematica. Prime crepe iniziano a vedersi anche alla primaria che resta il fiore all’occhiello della scuola italiana, e si confermano pesanti divari territoriali, con il Sud indietro e molto distante dal Nord, e una dispersione implicita che penalizza le famiglie che provengono da situazioni socio-economiche meno favorevoli” (www.ilsole24ore.com). Un quadro, quello descritto nell’articolo, senza toni apocalittici ma ugualmente preoccupante.
C’è però anche chi, come il professor Cristiano Corsini, professore ordinario di Pedagogia sperimentale all’Università Roma Tre, in un’intervista rilasciata a Vincenzo Brancatisano su Orizzontescuola.it del 15 luglio, non è d’accordo con i toni drastici usati in generale dalla stampa sul livello di apprendimento degli studenti. Pur riconoscendo l’importanza delle prove Invalsi : “La scuola italiana ha dei problemi che sono i problemi del paese e questi problemi incidono soprattutto dalla scuola media in su. Sono problemi enormi ma non possiamo pensare di affrontarli usando le prove Invalsi per quello che non sono. Non sono una misura degli apprendimenti individuali, non sono uno strumento che misura le competenze o le fragilità dei singoli e quindi ci indicano semmai che bisogna intervenire a livello strutturale, ad esempio sul tempo pieno e sul numero di studenti per classe, sulla qualificazione e sulla selezione del personale docente”.
Siamo d’accordo con il professor Corsini: la scuola è specchio della società, nel bene e nel male, verrebbe voglia di dire. E’ una riflessione quasi ovvia, considerato che nelle aule scolastiche si presentano i livelli educativi che provengono dalle famiglie, il grado culturale rappresentato in esse, l’attenzione verso l’istruzione e l’educazione dei propri figli. Ci lamentiamo della scuola italiana da molto; leggiamo appelli per una maggiore severità, o almeno serietà; ma cosa e quanto cambia? Il filosofo Umberto Galimberti al Forum Monzani di Modena ha detto: “Espellerei i genitori dalle scuole, a loro non interessa quasi mai della formazione dei loro figli, il loro scopo è la promozione del ragazzo a costo di fare un ricorso al Tar, altro istituto che andrebbe eliminato per legge”. Chi vive nella scuola, quotidianamente, sa che sono parole sacrosante: da parte di molti genitori, non da tutti per fortuna, il diritto allo studio viene scambiato per diritto alla promozione, perché il famoso “pezzo di carta”, il diploma, è l’unica preoccupazione per molte famiglie. Si dimentica però che questo discorso del “pezzo di carta” utile per l’inserimento nel mondo del lavoro è vecchio di anni, quando ancora poteva servire avere un diploma; oggi, che i diplomati sono tanti, se non hai le competenze e le conoscenze richieste dal mercato non ti assume nessuno! A parole da parte di alcuni genitori si vuole la qualità nella scuola e “con grande saggezza”… i genitori riconoscono che la selezione meritocratica dà lustro alla scuola e si riconosce la giustezza della selezione. Certo. Purché ad essere respinti non siano i propri figli! Chi vive nella scuola da tanto tempo, come chi scrive, vede come non ci sia una cultura della scuola, il senso di studiare per apprendere, per crescere, per prepararsi alla vita con consapevolezza. Ripetiamo: non da parte di tutti, ma di molti sì. I ragazzi sono vittime di un clima di superficialità, di generico buonismo e cattiva interpretazione del concetto di tolleranza, cresciuti a cellulare e videogiochi, non leggono, non si interessano del mondo circostante, delegando ad altri le scelte. Così si cresce nell’indifferenza, nel cinico rifiuto della politica, della vita attiva. Una situazione che va peggiorando per colpa prima di tutto di quelle famiglie che si disinteressano della crescita autentica dei propri figli, ma anche di quegli insegnanti che “tirano a campare”, che credono che il loro lavoro sia solo quello di fornire nozioni, essere dei “tecnici” della propria materia. Si dimentica che la scuola è formazione non solo istruzione; o meglio istruzione che forma. Ma il formatore, l’insegnante, non può essere un docente asettico, che non entri in empatia con i suoi allievi, che non avverta il senso educativo della sua professione. Michel De Montaigne diceva: ”Meglio avere delle teste ben fatte che delle teste ben piene”. Oggi, per bene che vada, molte volte si mira a riempire la testa, mentre la crescita civile, umana non sempre viene vista come prioritaria. Introdurre l’insegnamento di Educazione civica come materia di educazione alla cittadinanza attiva, per esempio, è come seminare, in molti casi, in un campo non arato. Che fare? Ricominciare da capo. Ricostruire la figura e il senso dell’insegnante. E questo non lo si fa né in poco tempo né solo con gli aumenti di stipendio. C’è da recuperare un lungo periodo di silenzio in questo campo. Dopo aver smantellato valori e punti di riferimento, ora è molto difficile risalire la china. Ma dobbiamo farlo, avere il coraggio di farlo, non temere di essere additati come “reazionari”: ne va della crescita del nostro Paese.
Historicus