SOMMARIO DELLA SEZIONE:
- IL CORAGGIO DI RICORDARE
- TITO: FINE DI UNA PARABOLA
IL CORAGGIO DI RICORDARE
Dopo più di cinquant’anni di vergognoso silenzio finalmente è stata istituito il Giorno del Ricordo per commemorare " le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra ". Il 30 marzo 2004 il Parlamento italiano ha riaperto una pagina per troppo tempo nascosta per vigliaccheria, per squallido opportunismo, per incapacità di fare i conti con quello che si è stati e in buona parte ancora troppi sono. Non si sono volute ricordare, anzi si sono volute cancellare quelle povere vittime che hanno pagato la sconfitta della seconda guerra mondiale per una elaborazione della memoria secondo la quale si è fatta passare per una vittoria una dolorosa e bruciante disfatta seguita da una guerra civile che si è messa sugli altari e si celebra ogni anno con più enfasi senza considerarla nella sua interezza, anzi negando spudoratamente anche alcuni aspetti vergognosi come quelli del "triangolo della morte". Forse si spera che continuando a tacere, a coprire, a negare si possa modificare la storia. Ma i fatti non cessano di esistere perché qualcuno vuole ignorarli e seppellirne per sempre la memoria. Viene il momento in cui le vittime gridano più forte dei loro carnefici e li costringono a fare i conti con la barbarie dei boia, l’ ignavia il cinismo di chi allora, durante e poi non ha saputo, voluto o potuto fare i conti con questa scomoda realtà. Per anni le foibe su testi ed enciclopedie sono state solo ricordate come "doline carsiche molto diffuse in Istria", ignorando che lì dentro c’erano italiani di tutte le fedi politiche che volevano sfuggire alla slavizzazione forzata e al comunismo di Tito. Quella pagina bianca, ricoperta di mezze verità o perfino di spudorate menzogne, adesso deve essere finalmente riscritta. Adesso bisogna riconoscere che fu una tragedia dettata dall’odio etnico, politico ed ideologico, una feroce miscela che generò uccisioni di massa, feroci persecuzioni, violenze di ogni genere. Ci fu anche lo scontro fra comunisti e non comunisti, fra diversi nazionalismi, ci fu la reazione all’occupazione fascista della Slovenia. Ragioni storiche sulle quali è necessario aprire il dibattito per capire, ma nulla può giustificare l’uccisione di migliaia di persone in modo tanto orribile. Ci fu un disegno politico nell’eliminazione delle persone, non fu una resa dei conti, una grande vendetta del momento. Furono uccisi cittadini italiani appartenenti a varie classi sociali e di differenti idee politiche, perfino apolitici. Ma italiani. Furono ammazzati in vari modi, alcuni furono fucilati, altri deportati in campi di concentramento dove rimasero anche a lungo morendo di stenti, sevizie, malattie. E poi ci furono gli infoibati. Uomini, donne, bambini, anziani, spintonati a calci e pugni fino all’orlo della cavità, con i polsi legati col fil di ferro, messi a due a due in modo che uccidendo il primo, questi precipitasse nel baratro trascinando con sé tutti gli altri. Venivano così lasciati morire dopo lunga agonia. Testimonianze riferiscono di urla, di strazianti richieste di aiuto che venivano dal fondo della terra anche dopo due giorni dagli eccidi. Questa è una barbarie che non ha giustificazioni di sorta. Proprio per questo è ancora più sporco, più indecente, più vergognoso, più intollerabile il tentativo di tacere, di minimizzare. Le foibe rientrano fra le grandi tragedie del "secolo del male" e costituiscono uno specchio della coscienza etica, civile, culturale di ognuno di noi. Una coscienza che ci divide in due categorie ben definite: chi è anti-totalitario e chi è anti ciò che gli fa comodo. Conoscere la storia è sapere chi siamo, da dove veniamo, è recuperare le nostre radici, le nostre tradizioni, la nostra essenza di uomini. Per questo si dice che la storia è maestra di vita. Ma la storia fatta di silenzi, di falsificazioni, di mitificazioni non è maestra di vita, non aiuta a far sì che non succeda più. Bisogna ricordare tutti gli episodi se vogliamo educare i giovani, e magari anche i meno giovani, a una conoscenza senza censure preventive, alla comprensione delle ragioni dell’altro, alla tolleranza. La Scuola italiana è stata particolarmente carente su questo piano: la storia del 900 è stata scritta e insegnata in modo troppo spesso falso e distorto. Non si sono presentati e valutati i fatti, ma si sono condannate, ignorate o elaborate pretestuose costruzioni concettuali giustificazioniste a seconda di chi avesse commesso certe azioni. Bisogna che si abbia il coraggio da più parti di superare l’imbarazzo profondo di alcune culture politiche e la connivenza di altre che hanno tenuto a battesimo la Repubblica. E’ ora di porci consapevolmente davanti a tutta la nostra storia, anche la più dolorosa, anche quella davanti alla quale qualcuno non può non provare rimorsi e vergogna, anche quella dimenticata e sottaciuta. E’ un’operazione necessaria se vogliamo rendere salde le ragioni del nostro essere come nazione.
Pierangela Bianco
TITO: FINE DI UNA PARABOLA
A venticinque anni dalla morte di Tito, avvenuta nel maggio 1980, una carica esplosiva posta sulla sua statua nella nativa Croazia ha decapitato il busto che adornava il mausoleo del vecchio dittatore, sul quale, secondo le cronache, stavano crescendo le ortiche, ormai da tempo. Il gesto è sembrato assumere una valenza simbolica, chiudendo definitivamente un’epoca, e liquidando in termini icastici l’esperienza politica del titoismo, già condannata, sul piano economico, dal disastro dell’autogestione e dallo sfascio della vecchia Repubblica federativa.
Josip Broz (vero nome del defunto Maresciallo) era salito alla ribalta durante il secondo conflitto mondiale, quando era assurto in breve tempo da semplice comandante dei partigiani comunisti, in lotta contro le forze dell’Asse ma anche contro gli insorti cetnici di Draza Mihajlovic (fedeli alla Monarchia jugoslava in esilio); a leader riconosciuto dell’eterogeneo mosaico costituito dagli Slavi del sud. Tito, grazie al supporto degli Alleati, ed in primo luogo di Londra, ebbe buon giuoco nel prevalere, e nel valorizzare oltre ogni ragionevole ipotesi l’apporto delle sue bande.
Uomo di grande carisma e di straordinario fiuto politico, Tito riuscì a sedersi accanto ai vincitori in posizione di sostanziale parità, costringendo l’Italia all’unico apprezzabile sacrificio di territorio metropolitano (cui si sarebbe aggiunto quello di Briga e Tenda a favore della Francia, di ben più modesta entità); con la cessione di gran parte della Venezia Giulia e di tutta la Dalmazia. Il dittatore jugoslavo, mettendo in pratica con oculato tempismo i principi della "realpolitik", volse a proprio esclusivo vantaggio la vittoria degli Alleati sul fronte italiano, incurante dei delitti di cui le forze comuniste si erano macchiate nei confronti della stessa popolazione civile, anche dopo la fine delle ostilità militari: le uccisioni tramite infoibamenti, annegamenti, fucilazioni e lapidazioni, perpetrate a danno degli italiani, coinvolsero un numero imprecisato di Vittime, non lontano, secondo autorevoli ricerche, dalle ventimila unità, mentre buona parte del popolo giuliano-dalmata prendeva la via dell’esilio per sfuggire alle persecuzioni. Lasciarono la propria terra circa 350 mila persone, un quarto delle quali dirette all’estero, soprattutto in Paesi oltremare.
Negli anni successivi, Tito governò col pugno di ferro, eliminando nelle sue prigioni un gran numero di oppositori, e mettendo il mordacchio ad ogni dissenso che potesse porre in pericolo la precaria unità jugoslava, dove convivevano diverse nazionalità e religioni.
Questa prassi non impedì all’astuto Maresciallo di attuare sin dal 1948, unico fra tutti i satrapi dell’Europa Orientale, il disimpegno dall’alleanza con Mosca, sostituendolo con un singolare terzomondismo, che lo pose all’avanguardia dei Paesi "non allineati", giunti a 44, ed appartenenti, fatta eccezione per la Jugoslavia, ai Continenti extra-europei. Fu una mossa di notevole acutezza, perché permise a Tito di avviare rapporti di vicinanza politico-economica con l’Occidente, e di portare a casa un florilegio di aiuti, sotto forma di finanziamenti agevolati, ma anche di donazioni, nella cui erogazione si distinsero, nell’ordine, Stati Uniti, Germania, Francia, e la stessa Italia.
Con quest’ultima, i rapporti giunsero a tale stato d’avanzamento che nel 1975 fu possibile chiudere, col trattato di Osimo, ogni residuo contenzioso, ed acquisire la sovranità sulla Zona "B" del Territorio Libero di Trieste, ceduto dall’Italia senza alcuna contropartita, in ossequio alla politica di "solidarietà nazionale" che aveva portato il PCI nell’area di Governo, dopo un’opposizione pluridecennale.
In pratica, l’esperienza titoista indusse una gestione totalitaria del potere protrattasi per ben 35 anni, durante i quali lo Stato jugoslavo si identificò col suo Presidente, lasciando ai collaboratori, sia pure di vertice, come i Gilas ed i Kardelj, funzioni sostanzialmente comprimarie, anche se talvolta significative.
Sul piano economico, i risultati furono disastrosi, tant’è vero che, già in epoca titina, il debito pubblico "pro-capite" della Jugoslavia era il più alto d’Europa. Le conseguenze politiche, invece, furono rinviate al dopo Tito, perché Josip Broz riuscì a difendere sino alla fine l’unità della Repubblica federativa, grazie ad una prassi di grande spregiudicatezza che non disdegnava l’uso indiscriminato della forza. Ad esempio, Mirko Vidovic, un intellettuale dissidente, fu condannato a sette anni di carcere duro, per avere osato pubblicare un libro di poesie critiche nei confronti del regime.
Dopo la morte di Tito, la corsa verso il disastro divenne sempre più accelerata, rivelando in termini talvolta drammatici il fallimento politico ed economico della formula jugoslava: non mancarono, tra l’altro, alcuni suicidi eccellenti, come quello di Ljubisa Veselinovic, figura di spicco della Resistenza, come atto di estrema protesta contro la degenerazione del Paese, innanzi tutto sul piano morale.
Oggi, la decapitazione della statua di Tito stende un velo di malinconia sulle "magnifiche sorti e progressive" di una stagione che era stata salutata in buona parte dell’Occidente come l’alba di un mondo nuovo, improntato al cosiddetto socialismo integrale, e che invece fu l’anticamera dell’ennesimo dramma balcanico. La palingenesi del titoismo in una sorta di crepuscolo degli dei, nel quale la commedia dell’arte prevale largamente sulle suggestioni wagneriane, sta a dimostrare che l’esercizio del potere in chiave di "realpolitik", quand’anche supportata, come nel caso di specie, da una diffusa tolleranza internazionale, è destinato al collasso, se non venga governato dal senso etico dello Stato, e nello stesso tempo, dal rispetto dei valori fondamentali di civiltà e di giustizia.
Carlo Montani