Nella storia di uno Stato o di una Nazione esistono eventi che sarebbe difficile cancellare dalla memoria collettiva, da una parte, per l’ampiezza delle conseguenze immediate, e dall’altra, per il ruolo che finiscono per esercitare, anche a lungo termine, nell’inconscio collettivo e nelle sue correlazioni politiche. A questa tipologia appartiene certamente il trattato di Osimo, alla cui firma si pervenne nel novembre 1975 da parte dei Ministri degli Esteri di Italia e Jugoslavia, Rumor e Minic, in un’atmosfera da consorteria, motivata da ragioni di segretezza diplomatica che intendevano nascondere alla pubblica opinione un atto di rinunzia alla sovranità nazionale su una porzione non marginale del suolo italiano, la cosiddetta Zona "B" del mai costituito Territorio Libero di Trieste, senza alcuna contropartita.
Oggi, le motivazioni di Osimo sono state analizzate in maniera più compiuta dalla critica storica, ed individuate, prioritariamente, nella politica di solidarietà nazionale che aveva portato i comunisti italiani nell’area del potere governativo, e nell’apparente convenienza di chiudere ogni possibile contenzioso col regime di Tito, che si ergeva a campione dei "non allineati" e godeva di evidenti preferenze da parte dei maggiori Governi occidentali, fin troppo disponibili a soddisfare le attese economiche dell’astuto Maresciallo, già da allora alle prese con una crisi che di lì a non molto avrebbe portato al dissesto, ed infine, allo sfascio della Jugoslavia.
In sede parlamentare, la ratifica di Osimo non fu priva di qualche sporadico sussulto di orgoglio e dignità nazionali: diversi esponenti della maggioranza si assentarono al momento del voto, e qualcuno si espresse in senso contrario, assieme a deputati e senatori del MSI, che guidarono l’opposizione in modo fermo e compatto, al pari di quanto accadeva, sull’altro fronte, per i gruppi socialista e comunista. Vale la pena di ricordare che alcuni parlamentari della DC, responsabili di essersi dissociati dalla disciplina di partito, furono deferiti al Collegio dei probiviri per i provvedimenti del caso.
Sta di fatto che, se alcuni avevano tradito, questi erano coloro che, in sede governativa, parlamentare ed istituzionale, avevano avallato Osimo, violando le disposizioni contenute nell’art. 241 del Codice penale, laddove si statuisce la pena dell’ergastolo a carico di "chiunque commette un fatto diretto a sottoporre il territorio od una parte di esso alla sovranità di uno stato straniero": un reato che oltre tutto è imprescrittibile, e che in tale ottica potrebbe essere tuttora contestato a quanti se ne resero responsabili.
In questa sede, peraltro, non si ritiene necessario analizzare nei dettagli una storia già nota, che aveva origini lontane, e chiamava in causa, accanto alle motivazioni strumentali di cui si è detto, la permanente "cupidigia di servilismo" che Benedetto Croce e Vittorio Emanuele Orlando avevano bollato con nobili parole, durante la discussione parlamentare del 1947 per la ratifica del "diktat" che aveva tolto all’Italia l’intera Dalmazia, e buona parte della Venezia Giulia. Caso mai, appare congruo fare il punto, alla stregua di quanto si diceva in premessa, sulle conseguenze di Osimo in sede etico-politica.
Il trattato del 1975, al giorno d’oggi, si pone, anche dal punto di vista cronologico, alla stregua di uno spartiacque fra il disastro dell’immediato dopoguerra e l’odierna catarsi consumistica, agli antipodi di ogni valore ideale, e della stessa concezione della politica come "arte" di ben operare nella vita associata per il conseguimento di diritti ed interessi generali. Tuttavia, se nel 1947 l’Italia doveva fare i conti con l’intransigenza degli Alleati, e come era già accaduto nel 1919, con i limiti della propria delegazione a Versailles, ma prima ancora, con la subordinazione alle impellenti necessità economiche del momento, nel 1975 le sue condizioni erano nuovamente quelle di un’importante potenza industriale, caratterizzate da fondamentali di gran lunga superiori, rispetto ai corrispondenti parametri jugoslavi. Eppure, Tito riuscì a concretizzare il suo ultimo capolavoro politico, auspici i Governi occidentali, ma nello stesso tempo, grazie all’incapacità italiana di perseguire una politica estera degna di questo nome.
Lo spirito del "diktat" colpiva ancora, come avrebbe continuato a colpire, ormai senza remore, nel trentennio successivo ad Osimo, proprio perché corroborato, fra l’altro, dall’influenza di questo trattato, e dalla rinnovata propensione a tutto concedere senza nulla esigere. Non a caso, sarebbero intervenuti ulteriori episodi a dir poco opinabili, come la fuga a Belgrado del terrorista arabo Abu Abbas, favorita dal Governo Craxi, il bacio del Presidente Pertini alla bandiera jugoslava, l’uccisione di Bruno Zerbin nell’ennesimo episodio della cosiddetta guerra del pesce, e l’affrettato riconoscimento, ancora una volta senza contropartite di sorta, delle nuove Repubbliche di Croazia e Slovenia. A voler completare il quadro, si potrebbero aggiungere gli atteggiamenti di sistematico disimpegno nei confronti delle attese degli Esuli, non tanto sull’annosa questione dei beni, quanto su quelle delle tombe usurpate, e della tutela di valori artistici, culturali e spirituali sempre più sacrificati sull’altare dell’interscambio, o meglio, dell’affarismo.
Il trattato di Osimo è rimasto fortunatamente inattuato per alcuni aspetti velleitari, se non anche grotteschi, come la realizzazione di una zona industriale mista nell’area carsica, o quella di una faraonica idrovia tra l’Adriatico e la valle del Danubio basata su costosi sistemi di chiuse: in parte, per la forza delle contestazioni locali, ed in primo luogo per quelle promosse dalla Lista per Trieste, antesignana di un autonomismo nazionale che altrove, diversamente da quanto accadde nella città di San Giusto, non seppe trascendere gli schemi di un gretto municipalismo; ed in parte, perché la crisi jugoslava, precipitata sin dagli anni ottanta dopo la morte di Tito, avrebbe stroncato sul nascere quelle velleità surreali. In questo senso, se qualcuno aveva pensato ad Osimo, come ad una matrice di cooperazione, fu costretto a riconsiderare rapidamente siffatte opzioni, che avrebbero recuperato terreno soltanto dopo la dissoluzione della Repubblica federativa, l’avvento dei nuovi Stati nazionali, e le loro ambizioni comunitarie.
Trent’anni dopo, si può ben dire che Osimo nacque vecchio, come prodotto di sovrastrutture ormai anacronistiche, e nella migliore delle ipotesi, di illusioni, ovvero delle false speranze di quanti insistevano, contro ogni evidenza, in atti di fede nella via jugoslava al socialismo, nel valore taumaturgico dell’autogestione, e nella presunta collaborazione di classe che era stato facile perseguire fagocitando tutte le opposizioni: non solo nei vecchi lager dell’Isola Calva o di Stara Gradisca, ma anche imprigionando, verso la fine degli anni ottanta, uomini di cultura o sacerdoti, rei di qualche dissenso marginale, come quello di avere dato alle stampe una piccola immagine sacra.
Purtroppo, talune conseguenze sono rimaste a pesare come macigni: basti pensare al nodo scorsoio territoriale e marittimo che ha condizionato oltre ogni dire lo sviluppo di Trieste, e che solo parzialmente ha cominciato ad allentarsi con l’ingresso della Slovenia in Europa; ma prima ancora, all’atteggiamento proclive dei Governi italiani, nessuno escluso, dapprima verso la ex-Jugoslavia, ed ora, verso le nuove Repubbliche. L’Italia, secondo i grandi numeri, è sempre una grande potenza industriale, ancorché caratterizzata da una congiuntura precaria come non mai, ma il suo sistema etico-politico (si fa per dire) appare fondato, oggi più di prima, su una giustapposizione di "particulari" che non sembrano in grado di coniugare positivamente, come sarebbe necessario, il nobile sentire con il forte agire.
Uno Stato, o per meglio dire, un Paese come l’Italia, sostanzialmente ridotto a confidare nello stellone, non è destinato a progredire in modo apprezzabile, ma a ripiegarsi sulle scelte meta-politiche da cui scaturì l’obbrobrio di Osimo.
Carlo Montani