Dal nostro corrispondente dal Canada
Il critico gastronomico del New York Times, Frank Bruni, ha voluto fare un viaggio nostalgico nella cucina italiana proposta nei ristoranti di New York dagli italo-americani. Il suo responso? Negativo: pasta spesso stracotta e in genere piatti che sono un’ombra di quelli che si possono gustare in Italia (dove Bruni ha soggiornato come inviato del New York Times). Le cucine locali, se trapiantate, non solo riducono la varietà originaria ma perdono una parte dei sapori di partenza. Insomma "emigrano male". Lo stesso capita alle lingue. Che si pensi alla lingua italiana di cui ci serviamo noi emigrati, o anche al francese che usano i quebecchesi, per non parlare della loro cucina, pallidissima ombra di quella dell’Esagono... Sono le stesse culture, in definitiva, che "emigrano male". La regola vuole che il trapianto di una cultura in un paese lontano avvenga all’insegna dell’impoverimento e della deformazione. Tutte le culture, se tenute lontane dall’humus natale, tendono a sbiadirsi e a sclerotizzarsi. Un esempio: le "Little Italies" rappresentano molto male la civiltà italiana. A meno che il gruppo della "transumanza" non riesca a creare un nuovo paese, come è avvenuto all’epoca delle grandi conquiste del passato. Il favore straordinario di cui gode nei discorsi ufficiali, in Occidente, il "multiculturalismo", considerato una sorta di nuova formula societaria che permetterebbe ai popoli di superare gli angusti confini della Nazione, si fonda sulla credenza contraria: una cultura trapiantata varrebbe quanto il suo modello d’origine. Il Paese di accoglimento è quindi concepito come una sorta di contenitore in cui le diverse culture vivono su un piede di parità e coesistono in armonia, ogni gruppo onorando la propria bandiera. Questa concezione si basa sull’idea che una cultura possa "internazionalizzarsi" - cioè trapiantarsi altrove - senza nulla perdere della propria sostanza. Di qui il ripudio dell’idea stessa dell’ "assimilazioneA" dei nuovi arrivati nella società d’accoglimento. La società ideale, oramai, per molti è una società utopica multiculturale: libera, senza condizionamenti imposti dal passato della Nazione di accoglimento (ma pesantemente condizionata dal passato dei singoli gruppi etnici) e dove persino l’identità del singolo, se costui vuole, riesce ad essere "multipla". Il Paese è visto come un gigantesco supermercato dove ognuno apporta o preleva i "prodotti" che gli aggradano. In realtà, che uno di noi provi, in Canada, a far la fila "all’italiana", o che cerchi di togliere i peluzzi dalla manica della giacca dell’amico canadese con cui sta parlando, come si usa fare da noi... Per Giuseppe Prezzolini, che visse per numerosi anni all’estero tra i "trapiantati", l’esito inevitabile del trapianto degli italiani in terra d’America era l’assimilazione. Esito, secondo lui, auspicabile, anche perché l’emigrato italiano portava con sé ben poco della gloriosa cultura italiana. Prezzolini arrivò a sostenere, con cinismo, che l’emigrazione non era una "somma" - somma di lingue, somma di culture, somma di civiltà, somma di sensibilità - semmai una "sottrazione". "Mia figlia ha sposato un sudamericano. I loro figli hanno due lingue materne: l’italiano e lo spagnolo. Conoscono inoltre sia il francese che l’inglese. E tu, caro Claudio, ti ostini a parlare di identità’, origini’, passato’..." Così mi ha detto di recente un amico di Montréal che sostiene di essere, al contrario di me, "figlio dell’universo". Gli ho replicato: "E tu pensi che i tuoi nipoti a loro volta faranno dei figli che parleranno diverse lingue e che avranno un’identità culturale multipla’?" Non ho voluto aggiungere che il parlare due o tre lingue si traduce spesso, tra i figli degli emigrati, nel non conoscerne poi bene nessuna. Le mode certamente cambiano, soprattutto nel campo delle idee. Il passato ci indica però che, a lungo termine, l’assimilazione è l’esito inevitabile - e anche auspicabile - di ogni emigrare.
Claudio Antonelli