L’esodo giuliano e dalmata è stato caratterizzato da diversi aspetti speciali, che lo distinguono da molte esperienze analoghe. Tra di essi, vale la pena di ricordare ad uso degli immemori che non fu una qualsiasi migrazione, assimilabile a quelle di cui abbonda la storia italiana e recente, ma una scelta di civiltà e giustizia con un marchio di irreversibilità, tipico del vero esilio, nel quale non c’è speranza di ritorni più o meno lontani, ma nostalgia per la terra perduta, non disgiunta dalla permanente indignazione per i modi con cui venne praticata, come nel caso specifico, una vera e propria pulizia etnica.
Nel caso dei giuliani e dalmati, l’esodo, reso più drammatico dalle tragiche vicende che costarono la vita a tanti Martiri, fu contraddistinto subito, durante i lunghi anni nei quali si susseguirono le varie ondate da Zara, da Fiume, dall’Istria, poi da Pola, ed infine dalla Zona "B", dalla consapevolezza che esso costituiva il presupposto di un esilio senza appello, reso ancora più amaro, in molti casi, dal trasferimento in Paesi lontani, dove tanti profughi avrebbero ricostruito la propria vita su basi del tutto nuove.
Un esodo altrettanto massiccio aveva fatto seguito, nello scorcio conclusivo del 1917, alla rotta di Caporetto, quando l’intero Friuli e la parte settentrionale del Veneto furono abbandonati alla mercè dell’invasore, ma in quella circostanza l’angoscia dell’ora tragica fu mitigata dalla fede nella Vittoria e nel successivo ritorno, che avrebbe trionfato di lì ad un anno grazie al sole di Vittorio Veneto. C’è di più: in quella circostanza un intero Paese si strinse attorno ai profughi con encomiabile solidarietà, tanto che alcuni di loro sarebbero rimasti per sempre nelle regioni che li avevano accolti.
Al contrario, durante l’esodo giuliano e dalmata degli anni quaranta e cinquanta, accadde qualcosa di profondamente diverso, come è testimoniato dall’oltraggio di Venezia e di Ancona a chi scendeva dalle navi della diaspora con pochi poveri fagotti, se non anche alle ceneri di un Eroe come Nazario Sauro, o dal divieto di assistere un treno di esuli in transito dalla stazione di Bologna, dove fu minacciato lo sciopero generale se tanto si fosse osato. Secondo i nuovi padroni del vapore, quei disperati altro non erano se non un’accozzaglia di fascisti che erano stati giustamente puniti per le loro nefandezze e che, peggio ancora, avevano osato rifiutare il paradiso di Tito.
Queste considerazioni, a sessanta anni dal diktat del 1947, acquistano un significato importante che è bene proporre soprattutto agli ignari, perché attestano quanto ampia, e per taluni aspetti incolmabile, fosse stata la regressione compiuta nel giro di un solo trentennio a danno della sensibilità umana, civile e sociale del popolo italiano: non tanto per le sofferenze belliche, da cui il Paese era stato colpito con forte virulenza anche nella prima guerra mondiale, o per la paura di un futuro incerto e precario anche dal punto di vista economico, quanto per l’avvento del massimalismo comunista e delle sue malcelate attese di una rivoluzione definitiva.
In siffatto clima, l’esodo ebbe connotazioni ancora più deprimenti rispetto a quelle del 1917 o dello stesso 1919, quando ebbe luogo il grande abbandono della Dalmazia, con la sola eccezione di Zara, da parte di tutti gli italiani che non avrebbero potuto né voluto trasformarsi in sudditi del nuovo Stato jugoslavo creato a Versailles. Anche per questo, l’esperienza dei campi profughi si sarebbe protratta, in diversi casi, fin verso la fine degli anni sessanta: mancavano le case, non c’erano occasioni di lavoro, ma come attestano le cronache dell’epoca, negli esuli più anziani, deboli e poveri era subentrato uno scoramento esistenziale praticamente inguaribile, dovuto all’estrema precarietà delle loro condizioni contingenti, ma prima ancora, all’accoglienza matrigna che avevano ricevuto in patria, e che era tanto più dolorosa in quanto erano stati loro a doversi fare carico, pur senza colpa veruna, delle conseguenze di gran lunga maggioritarie della sconfitta.
Proprio per questo, a sessanta anni dall’esodo, e dall’inizio di un esilio che non avrebbe avuto fine, è congruo affermare che la recente istituzione legislativa di un "Giorno del Ricordo" capace di restituire una migliore visibilità storica a quella tragedia, dovrebbe essere suffragata da pur tardive misure di risarcimento, non solo a proposito del conclamato indennizzo equo e definitivo dei beni nazionalizzati, ma prima ancora, in termini morali: ad esempio, assicurando una tutela meno episodica dei sepolcri italiani in Croazia e Slovenia, già oggetto di troppe soperchierie; promuovendo un effettivo rispetto della normativa che fa divieto di dichiarare nati all’estero coloro che videro la luce in Istria e Dalmazia prima del trasferimento di sovranità; diffondendo una cultura storica meno approssimativa, e spesso mendace, attraverso una giusta revisione di testi scolastici generalmente evasivi e riduttivi se non addirittura falsi.
L’elenco potrebbe continuare, ma non è questa la sede per elaborare un "cahier des dolèances" che costituisce caso mai competenza specifica delle Organizzazioni giuliane e dalmate. Ciò che preme ribadire, invece, è che l’esodo giuliano e dalmata non fu soltanto un grande fenomeno plebiscitario attestante una scelta indiscutibile di giustizia, se non anche la fuga verso la salvezza fisica, ma un sacrificio affrontato nel tradizionale ossequio ai valori cristiani di tolleranza, pur nella tristezza di doverlo compiere nella logica dell’esilio: in altri termini, senza speranze di ritorni.
Le figure più nobili del movimento giuliano e dalmata non hanno mai fatto mistero della volontà di "tornare", e non già da semplici turisti, quasi a sottolineare la permanenza di una fede che lo scorrere del tempo non ha affievolito, pur proiettandola in un futuro indefinito, e pur dovendosi prendere atto non senza rammarico che l’occasione positiva è stata perduta all’inizio degli anni novanta, quando lo sfascio della ex-Jugoslavia e la caduta del Muro avrebbero consentito l’apertura di ben altri orizzonti.
In questo senso, l’esilio può essere davvero una caratterizzazione dell’esodo che, lungi dal tradursi in accettazione passiva dell’ineluttabile, voglia proporsi come vigile attesa e preparazione, non diversamente da quanto è già accaduto nella storia, compresa quella degli anni più recenti. Appena venti anni or sono, chi avrebbe mai scommesso sull’unificazione tedesca, o sul recupero della piena sovranità nazionale da parte degli Stati baltici o di altre componenti dell’ex-Unione Sovietica? Un famoso aforisma di San Paolo esortava ad essere pronti, ma implicitamente sottolineava che sarebbe colpa non dappoco, quella di farsi trovare impreparati.
Carlo Montani