SOMMARIO DELLA SEZIONE:
- PREZZOLINI, "TERZISTA" ANTE LITTERAM
- IERI LA SPADA DELL’ISLAM, OGGI IL VISTO PER TEL AVIV
PREZZOLINI, "TERZISTA" ANTE LITTERAM
L’intellettuale fiorentino con gli "Apoti" ha anticipato Paolo Mieli
Paolo Mieli l’ha chiamata "terza Italia". Che cos’è? Un luogo puramente intellettuale che si colloca fuori dalla contrapposizione tra le fazioni. Un rifugio dello spirito e delle idee dove possono collocarsi tutti coloro che non vogliono partecipare a quella "guerra civile tutta interna alle nostre menti" che si sta combattendo in questi anni in Italia. Alla "militarizzazione" delle politica, gli uomini della "terza Italia" preferiscono l’onestà intellettuale. O, almeno, la ricerca di quest’ultima. Tenendo ben presente un rischio: "Per chi sta in un terzo luogo, a partita finita non ci sarà né l’amicizia dei vincitori né quella dei vinti". Il partito dei "terzisti" (felice neologismo); dunque, è nato. Sbaglierebbe però chi pensasse che l’atto di fondazione risalga al 18 settembre scorso, data di pubblicazione dell’articolo di Paolo Mieli sul Corriere della Sera. No, la "terza Italia" è nata ottant’anni fa. Più precisamente il 28 settembre del 1922 quando Giuseppe Prezzolini scrisse sulla Rivoluzione Liberale di Piero Gobetti un articolo intitolato "Per una società degli apoti", cioè di coloro che non bevono le bugie della politica. Rileggendo la prosa dell’intellettuale fiorentino fondatore de La Voce si ha proprio l’impressione che l’apotismo sia un "terzismo" ante litteram. Un esempio? "Il nostro compito - scrive Prezzolini a Gobetti -, la nostra utilità, per il momento presente ed anche, nota bene, per le contese stesse che ora dividono ed operano, per il travaglio stesso nel quale si prepara il mondo di domani, non può essere che quello al quale ci siamo messi, e cioè di chiarire delle idee, di far risaltare dei valori, di salvare, sopra le lotte, un patrimonio ideale, perché possa tornare a dare frutti in tempi futuri. A ognuno il suo lavoro. Vi è già tanta gente che parteggia! Non è niente di male per la società se un piccolo gruppo si apparta, per guardare e giudicare; e non pretende reggere o guidare, se non nel proprio dominio, che è delle spirito". Certo, Prezzolini scriveva a un mese esatto dalla Marcia su Roma, nell’infuriare della lotta tra fascisti e antifascisti. Oggi la situazione è diversa; nello scontro politico non si usano le armi (per fortuna). Eppure l’Italia - per usare le parole di Giampaolo Pansa - è ancora immersa "in una guerra civile di parole". Il parallelo apotismo-terzismo conduce a delle conclusioni scoraggianti. Sì, perché gli apoti e i terzisti non sembrano ancora avere diritto di cittadinanza in quest’Italia "in elmetto". Il loro destino, se intendono portare alle estreme conseguenze la propria scelta, appare uno solo: la solitudine intellettuale e politica. Come detto, li attende l’ostilità sia dei vincitori che dei vinti. E la rimozione dalla storia d’Italia. Tanto che a Prezzolini, a vent’anni dalla morte (scomparve il 14 luglio 1982, aveva cento anni) il Comune di Firenze non ha ancora dedicato una via cittadina. Per carità, non vogliamo entrare nelle polemiche sulla toponomastica, tanto amate dai faziosi di destra e sinistra. Ma che a uno degli intellettuali italiani (e fiorentini) più importanti del Novecento non sia stato nemmeno riconosciuto un ricordo di questo genere fa sinceramente cadere le braccia. E’ il triste destino degli apoti. Eppure oggi come non mai di una "terza Italia" dove trovare riparo dalle ottusità, dai manicheismi, dalle scomuniche, dai saluti negati, si sente un estremo bisogno. Ha scritto bene Massimo Gramellini, sulla Stampa: "C’è una terza Italia maggioritaria e senza rappresentanza che comprende milioni di cittadini di destra e di sinistra, ma soprattutto stanchi e confusi, che la brutalità del bipolarismo costringe ogni volta a schierarsi con quella delle altre due che in quel momento le sembra un male minore ( ) Questi ’terzi italiani’ non odiano nessuno e hanno un mucchio di cose da dirsi: sarebbe ora che cominciassero a farlo". Se non fosse un po’ retrò, sarebbe proprio il caso di dire: terzisti (e apoti) di tutta Italia, unitevi!
Massimiliano Mingoia
IERI LA SPADA DELL’ISLAM, OGGI IL VISTO PER TEL AVIV
I partiti e gli ambienti politici si valutano inevitabilmente dalla loro capacità di fornire risposte alle sfide della realtà contingente. La questione islamica, specialmente dopo i fatti epocali dell’11 settembre, s’impone prepotentemente nei ragionamenti politici. Si vuole in questa sede analizzare la posizione della destra rispetto all’Islam del terzo millennio. Il direttore del Barbarossaonline sottolineava nel presentare il giornale come per "destra" sia da intendersi unicamente Alleanza nazionale, in aperta polemica con certa stampa che alimenta confusioni volutamente o semplicemente per sciatta ignoranza. Puntualizzazione condivisibile, anche perché, non ci pare che ci siano tante forze disposte a spingersi per definirsi "di destra". Ma per compiere un’analisi corretta sulla situazione attuale è necessario ripercorrere le tappe progressive nelle relazioni tra l’area politica che ci interessa e la religione e la cultura islamiche. I primi rapporti ravvicinati iniziarono con la riconquista della Libia da parte italiana. Il momento più significativo fu quando nel marzo del 1937, governatore Italo Balbo, durante la visita di Mussolini si tenne una cerimonia nella valle di Bugara. Dallo schieramento di duemila cavalieri arabi, fra inni di guerra e rulli di tamburo, si staccò un armato che consegnò al Duce una spada d’oro intarsiato che il capo del fascismo, come riportò il Popolo d’Italia, "snudò" e "alzò fieramente verso il sole". Più tardi, dal castello di Tripoli disse che l’Italia avrebbe rispettato le leggi del Profeta e promise che avrebbe dimostrato la "sua simpatia all’ Islam e ai musulmani del mondo intero". Promessa che venne mantenuta sotto diverse forme. C’è stato indubitabilmente un fascismo filo-islamico e filo-arabo, che si fondava su un intreccio geopolitico ma anche sull’ammirazione verso una cultura religiosa che alla base aveva valori e riferimenti contigui all’ideologia mussoliniana del sangue, dell’onore e della lotta per la propria terra. Impossibile tacere poi sul peso che ebbe nel rapporto fascismo-Islam la controversa e drammatica questione ebraica. E’ naturale dunque che coloro che raccolsero la scomoda e complicata eredità fascista si siano fatti carico a livello ideale anche di quelle relazioni. Il fascino dell’Islam continuò a farsi sentire anche quando specialmente la gioventù della destra italiana affidò i propri sogni all’illusione di un’Europa delle nazioni e dei popoli, un’Europa forte e fiera - Gabriele Marconi cantava, "Le mie ossa affondano nelle Termopili, il mio sangue scorre nel Tevere, la mia pelle adesso è un tamburo che batte la danza d’estate a Stone Henge " - quel fascino si fece sentire quando i mujaheddin afgani combattevano e sconfiggevano i carri armati dell’Armata Rossa. Venne l’Intifada e anche a i ragazzi del Fronte indossavano la kefiah palestinese esattamente come gli odiati "compagni" e non mancò chi strizzava l’occhio all’Iran dell’ayatollah Komehini. Insomma una lunga storia di amorosi sensi tra le avanguardie tricolori e i seguaci di Maometto. Una storia che subì un brusco stop nella fase più difficile del Movimento sociale italiano, allorché nel 1991 il segretario Rauti si schierò al fianco degli Stati uniti e degli Alleati contro Saddam Hussein. Fu uno psicodramma politico: i ragazzi del Fdg guardavano con occhi smarriti l’anziano leader rivoluzionario, l’incendiario di antiche eresie, che spiegava loro come fosse necessario unirsi al buon mondo occidentale contro il baffuto dittatore iracheno che si era preso con arbitrio un fazzoletto di sabbia, divenuto oggetto della sensibilità planetaria sol perché trasudava petrolio. Quella frattura coincise, forse non casualmente, con il punto più basso della storia del partito fondato il giorno di Santo Stefano del ’46. Qualcosa stava finendo ed è emblematico che ha dare involontariamente il segnale di quel tramonto sia stato proprio l’uomo che fece sognare generazioni di giovani missini e non con provocazioni culturali e coraggiose avventure ideali. Anche l’illusione di Rauti, giunto alla segreteria con un decennio di ritardo e quindi fuori tempo massimo, cadde. La destra doveva, letteralmente doveva, prendere anche nelle letture geopolitiche altre direzioni, dice qualcuno, rassegnarsi ad entrare pienamente nelle logiche occidentali e atlantico-democratiche. E così fece - con una serie di combinazioni oggettivamente fortunate, è bene riconoscerlo - fino a Fiuggi e oltre. La strada era segnata: Fini partì dalle Fosse Ardeatine per approdare recentemente ad Auschwitz; nel mezzo le ospitalità congressuali a membri del Likud, le ammissioni di responsabilità e le richieste di perdono agli ebrei per le leggi razziali. In un tale contesto è facile capire come le simpatie islamiche si siano decisamente indebolite. La crescita esponenziale del fenomeno immigratorio, con tutto ciò che rappresenta per l’identità nazionale e dell’Europa cristiana, ha fatto il resto, per non parlare della scioccante affermazione sullo scacchiere mondiale del fondamentalismo islamico e del terrorismo. E’ il tempo di Bin Laden e dell’11 settembre: ora l’Islam è nemico - ricordate la capacità di rispondere alle sfide della realtà da cui eravamo partiti? - ma i dubbi e i distinguo ancora una volta rappresentano al tempo stesso la ricchezza e il limite della comunità della destra. C’è chi vuole chiudere le moschee e chi invece continua a leggere il musulmano Guenon e ascoltare il professor Cardini (sbaglia chi "onorevolmente" si scandalizza). Poi va considerato che rispetto ad Alleanza nazionale ci sono forze come la Lega nord che, avendo alle spalle una storia decisamente più breve e più semplice, può condurre con vigore e toni molto accesi la sua "crociata" contro la minaccia islamica. An su questo terreno si sta movendo con quella prudenza impolitica che sembra caratterizzarla un po’ troppo negli ultimi tempi. Fini all’ultimo congresso di Bologna ha detto che per la destra gli "esami sono finiti". Peccato che manchi ancora il timbro sul visto che Israele gli fa sospirare. I tempi però sono oramai maturi, manca poco al giorno in cui il Presidente tornerà da Tel Aviv brandendo esultante, in luogo della "spada dell’Islam", la stilografica dorata di Ariel Sharon
Fabio Pasini