Il giornalista Andrea Coccia, sul sito LINKIESTA del 6 settembre, si è occupato di scuola con un articolo dal titolo significativo: ”Portate via i genitori dalle scuole”. E lo ha fatto mettendo il dito sulla piaga che più affligge la scuola italiana oggi. La burocrazia? No. La dirigenza? No. I docenti? No. Gli studenti sempre meno motivati? Nemmeno. Una tipologia di genitori, appunto. Eh sì, proprio loro. Perché chi vive nella scuola, chi vi opera, dal bidello al Coordinatore didattico, dalle segretarie agli insegnanti, al docente di sostegno temono la telefonata o l’arrivo improvviso, a qualsiasi ora della giornata, di genitori angosciati per l’insuccesso scolastico, per un’interrogazione andata male, in questa o quella materia. L’allievo telefona subito, grazie al proprio cellulare, a casa, raccontando come abbia conseguito l’insufficienza. Naturalmente il più delle volte si guarda bene dal riferire che l’interrogazione era stata programmata, che aveva saltato il precedente appuntamento o che non aveva portato a scuola i compiti da svolgere a casa. O semplicemente che non aveva studiato! Legittima, si dirà, anche se eccessiva, la preoccupazione del genitore che si precipita a scuola, se questa preoccupazione fosse indirizzata a scoprire le vere cause del “4” in matematica, ma la questione è che i genitori giungono con la certezza che il proprio figliolo sia stato vittima della solita ingiustizia… ”Perché vede, professoressa, lui studia, si applica, lo vedo ore e ore nella sua cameretta, che studia, ma non si sente compreso”. Certo non tutti i genitori sono così; c’è chi si informa, chi vorrebbe far partire quanti più corsi di recupero e di sostegno possibile, chi dà colpa alla situazione familiare, e così di seguito. E c’è chi anche onestamente riconosce che il proprio figliolo non ha voglia di studiare, non gli interessa proprio, e che dovrebbe applicarsi di più. Sì, ma perché dovrebbe avere desiderio di studiare se nessuno gli fa nascere la voglia, l’interesse, la passione? Perché, se a casa non ci sono interessi culturali, non si legge un libro o un giornale che non sia un giornale sportivo? O, peggio, si fa passare l’idea che il mondo sia dei furbi, di chi riesce a fare meno fatica?
Ciò che più colpisce nello scritto di Coccia è che fa riferimento ad un’indagine condotta da due sociologi americani, Keith Robinson e Angel L. Harris che nell’aprile 2014 hanno pubblicato sul New York Times i gravi risultati del coinvolgimento dei genitori nell’educazione dei propri figli. Un’educazione che li opprime, non li lascia liberi di sbagliare, di costruirsi la propria vita: “La maggior parte delle forme di coinvolgimento dei genitori, come osservare i corsi dei figli, contattare la scuola per sapere come si comportano, aiutarli a decidere il loro percorso scolastico, o dargli una mano a fare i compiti a casa, non migliorano i loro risultati. Anzi, in qualche caso addirittura li ostacolano” . “Insomma – conclude Coccia – la presenza costante dei genitori nella vita degli studenti di ogni ordine e grado non solo non è d’aiuto, bensì ha effetti negativi sulla crescita e sui risultati dei ragazzi”.
E questo, quindi, non vale solo per il nostro Paese, ma anche per gli USA.
La scuola non viene vista da molti come luogo di crescita, come luogo di educazione, oltre che di acquisizione di conoscenze, come un lungo periodo della vita in cui ci si prepara non solo culturalmente ma con tutta la propria personalità in sviluppo a diventare cittadini. La stessa scelta dell‘indirizzo di studi molte volte non è motivata da interesse o predisposizione, ma da opportunità di vicinanza logistica, da esclusione (che è almeno una scelta) di altri studi perché piuttosto impegnativi o dalle più svariate motivazioni. I giovani che giungono negli Istituti superiori dalla scuola secondaria di primo grado, quella che si chiamava scuola media, giungono un po’ spaesati, sorretti il più delle volte da genitori che sono più disorientati di loro e che si affidano un po’ alla buona sorte per il futuro dei figli: “L’ha scelta lui”; “le piacciono le lingue”; “vuole fare l’avvocato o l’ingegnere”; “vuole andare alla Bocconi”…
Abbiamo una generazione di giovani genitori che risultano essere super-protettivi. E questo è ancora più evidente, drammaticamente evidente, nel caso di alcuni genitori che hanno figli con problemi didattici o che sono DSA o BES. Genitori che, in buona fede, per troppo affetto, non lasciano crescere e sbagliare i propri figli. E i giovani questo lo avvertono. Capiscono d’essere spalleggiati da genitori che vedono il loro ruolo come una difesa “sindacale” dei propri figli nei confronti dei docenti che “non li capiscono”. E questi ragazzi sono consapevoli di questa situazione, su di essa si adagiano e si comportano proprio come i bambini che, piangendo, commuovono i genitori, i nonni, gli zii e ottengono quello che vogliono. Si, quello che vogliono, tranne di crescere da persone adulte e consapevoli, responsabili del proprio destino.
Antonio F. Vinci