Mai come in questo periodo il nuovo Ministero dell’ Istruzione e del Merito è nelle cronache dei quotidiani. E non solo perché il nuovo ministro, Giuseppe Valditara, ha ribadito il divieto – norma che già esisteva – dell’uso indebito del cellulare in classe; né perché ha preso le difese dei docenti e del personale scolastico fatto oggetto di aggressioni nella scuola, offrendo la difesa giuridica da parte dello Stato; né per aver preso posizione nei confronti della dirigente scolastica del Liceo di Firenze a proposito dell’aggressione avvenuta fuori della scuola di alcuni allievi. No. A nostro avviso tutto prende avvio dalla mutata denominazione del Ministero, una volta diretto da Giovanni Gentile ( e scusate se è poco) : Ministero dell’Istruzione e del merito. Il “cambio di passo” c’è stato. E come. Una nuova denominazione che ha fatto sobbalzare sulla sedia i soliti “benpensanti”. Ma come, il merito? Facciamo una scuola classista? In effetti abbiamo dimenticato da anni quanto il merito sia fondamentale nella vita dei giovani e della società in generale. Abbiamo dimenticato il “6 politico” al tempo della contestazione del ’68? Lì non c’era merito e anche chi non si impegnava a scuola esigeva una sufficienza basata su un’adesione ideologica o almeno solo sul fatto di essere presente in classe. Il nuovo ministro, Giuseppe Valditara, è persona capace, uomo di scuola, consapevole che se si vuole cambiare il modo di fare didattica bisogna incidere profondamente in un ambiente in crisi, appannato, per molti versi sclerotizzato. Certo, ci sono scuole eccellenti, ma la popolazione dei docenti – basta leggere le cronache quotidiane – è sfiduciato. E non si tratta solo di un mancato riconoscimento economico che, da sempre, non è adeguato al lavoro prestato. Il docente ha perso il suo carisma; non è più il tempo della “maestra dalla penna rossa” del libro Cuore; la figura del docente è scaduta, maltrattata spesso da genitori che, dopo che si sono arresi di fronte alla mancata educazione dei loro figli, scaricano sui docenti le loro colpe. Ma poi ci sono continui episodi di violenza nei confronti dei docenti da parte di allievi, tanto che proprio recentemente il Ministro ha emanato una circolare – come si diceva - riguardante l’assistenza del personale scolastico vittima di comportamenti aggressivi. Ma ha suscitato perplessità più che altro l’aggiunta della frase, a quella storica di Ministero dell’istruzione, “e del Merito”. Finalmente direi! Ma, al solito, bisogna intendersi: cosa vuol dire “merito”. Il Dizionario internazionale - Il nuovo De Mauro, presente in rete, così definisce il merito: “ l’essere degno, l’aspirare a un riconoscimento, una lode o un castigo: premiare, punire a seconda del merito | diritto alla stima, alla ricompensa, all’elogio, ecc., acquisito in base alle proprie capacità o alle opere compiute”. Ecco, qui c’è tutto. Si tratta del giusto riconoscimento di chi, con le proprie forze, le proprie abilità e il proprio impegno, si merita la stima e l’elogio. Il timore è quello di lasciare indietro gli svantaggiati, quelli che –parliamo della scuola – hanno difficoltà, lacune pregresse oppure difficoltà oggettive. Non c’è un metro unico, oggettivo, che misuri il merito, ma esso è soggettivo, misurato sulla persona. A scuola ci sono allievi che sono classificati come DSA o BES, ma che si impegnano più di allievi che non hanno difficoltà, al di là del mero risultato numerico del voto: è difficile capire dov’è il merito? Si teme, in questa nostra civiltà dell’appiattimento, del pensiero unico, della finta uguaglianza, si teme la competizione. Ma la competizione, se è sana competizione e non è sopraffazione nei confronti di chi ha risultati migliori, è stimolo alla propria realizzazione, spinta a non accontentarsi del “minimo sindacale”, voglia di realizzarsi. Recentemente Stefano Zecchi su “Il Giornale” del 16 febbraio ha scritto un articolo che già nel titolo è un programma: “ Ansia da merito, ma la vita è competizione”. Scrive infatti : “ La virtualità spesso porta a non confrontarsi con la vita vera, e quando questa s’ incontra talvolta non si possiedono gli strumenti per reggerla. E si crolla. Cosa saggia sarebbe tenere insieme queste complessità psicologiche ed esistenziali, in cui c’è la virtualità, la realtà, la competizione, i propri meriti da far valere. Ci vuole un’educazione che non porti alla rinuncia e non esasperi il confronto con se stessi e con gli altri”. Chi lavora nella scuola vive in un osservatorio privilegiato per conoscere l’attuale generazione di giovani : spesso insicuri (la pandemia e la conseguente mancanza di rapporti sociali ha esasperato questa situazione); desiderosi di evitare gli ostacoli e non capaci di affrontarli; privi di stimoli e di interessi, abituati ormai a vedere il mondo circostante e non ad interpretarlo. Ma non né solo colpa loro. Questi giovani sono vittime di un clima di finta uguaglianza, di egualitarismo, di buonismo che non permette di vedere la realtà nella sua autenticità, di fare scelte autonome, di abituarsi ad un pensiero critico. La scuola oggi deve avere, anche, questo grande compito: far aprire gli occhi agli studenti, si deve dare un taglio etico che consiste nel diventare capaci di interpretare la vita, di scegliersi degli obiettivi, di guardare avanti. Ed anche di far valere i propri meriti, senza ipocrisie e come è giusto che sia. Ecco il ministro Valditara dovrebbe spingere verso questa rivoluzione nella scuola. C’è un grande bisogno di consapevolezza da parte degli insegnanti: eliminiamo o almeno limitiamo il puro apprendimento mnemonico, stimoliamo l’apprendimento critico, facciamo vedere ai giovani che c’è una realtà vera e molto più stimolante di quella virtuale, dei social media, dei cellulari. Strumenti utili ma che non possono prendere il posto della vita vera, e poi, torniamo alla solidità dell’apprendimento. I ragazzi non conoscono l’italiano, ormai diventato una lingua straniera con tutte le sue difficoltà di apptrendimento… Vengono dalle scuole secondaria di primo grado (le scuole medie) spesso, non sempre per fortuna, senza conoscere le tabelline (che si studiano alle elementari); senza conoscere la grammatica italiana. Non conoscono il vocabolario della nostra lingua e se non conoscono le parole non possono esprimersi, non possono dare corpo alle loro idee, ma continueranno a chiudersi in quel mondo virtuale, di vetro, che li isola sempre più dalla realtà. C’è una rivoluzione da compiere; diversamente avremo sempre più giovani incapaci di affrontare la realtà, perché senza strumenti e senza fiducia in se stessi. Non è facile, né si raggiunge lo scopo in poco tempo, ma bisogna spingere la scuola, le famiglie, la società tutta a porsi questo obiettivo. Bisogna dare vita ad un patto educativo tra scuola e famiglia, cambiare atteggiamento nei confronti dei giovani; un patto che prima di tutto deve avere la consapevolezza della situazione e della necessità, urgente, del cambiamento. Esiste già un “Patto di corresponsabilità” nella “burocrazia” delle scuole italiane; ma non basta. Deve nascere un “Patto etico”, di salvaguardia per le nuove generazioni. E non si tratta di fare altre sperimentazioni didattiche, di inventarsi nuovi metodi di insegnamento, nuove tecniche di comunicazione o adottare nuovi strumenti: tutto ciò può servire, ma se non si avverte che bisogna cambiare passo, ma sul serio, che bisogna guardare alla solidità delle conoscenze e non alle mode, alla saldezza delle tradizioni culturali del nostro Paese, saremo sempre più una civiltà in declino.
A. V.