SOMMARIO DELLA SEZIONE:
- 1923-2003 : E ORA SI CAMBIA!
- MACCARI E STRAPAESE, LA LEZIONE DI ORCO BISORCO
1923-2003 : E ORA SI CAMBIA!
Mercoledì 12 marzo il Senato ha dato via libera alla riforma scolastica. Dopo ottanta anni e 34 tentativi andati a vuoto la scuola cambia volto. In effetti da anni la scuola non era più quella voluta da Gentile e che aveva egregiamente formato generazioni di italiani. Si era trattato però di cambiamenti striscianti, di aggiustamenti in corso d’opera o di leggi che modificavano qualche aspetto snaturando un impianto , diciamolo, eccellente e creando solo confusione e abbassamento del livello culturale. Oggi la riforma Moratti è globale, organica , tocca tutti i gradi dell’istruzione. La struttura c’è. Ma è lecito sapere anche che cosa si insegnerà? Quali strumenti verranno messi a disposizione delle scuole? Come verranno formati e aggiornati gli insegnanti? Per ora siamo davanti a una scatola vuota. Tra proclami trionfalistici come quello del Movimento italiano genitori che parla di " primo importante passo verso una scuola di qualità equiparabile ai livelli europei" gli studenti dell’Uds che annunciano 24 mesi di proteste, tanto per mantenersi in allenamento, e l’opposizione che si preoccupa solo del contratto e della copertura finanziaria, argomenti importanti ma non inerenti l’essenza del cambiamento, attendiamo fiduciosi una scuola di "libertà responsabile, pluralità, flessibilità" come trionfalmente dichiarato dal premier Berlusconi. Attendiamo anche le novità proposte dalle Regioni, cui toccherà il 10 % del monte ore in nome della "personalizzazione" dei programmi. Francamente mi sfugge il rapporto fra personalizzazione del programma e regionalizzazione. Nell’attesa è doveroso segnalare alcuni aspetti inquietanti. Mi pare che la maggior attenzione e le proposte qualitativamente più sensate e costruttive riguardino il primo ciclo, mentre il secondo ciclo sia penalizzato proprio sul piano della qualità. E’ positivo aver diviso i licei dalle scuole di formazione professionale, ma perché ridurre i licei a due bienni e dedicare un anno intero all’approfondimento e all’orientamento? E chi arriva all’ultimo anno con le idee chiare che cosa fa? Non vorrei che a furia di orientarsi si perdesse la bussola. Fortunatamente per intervento del senatore Valditara si ovvierà, con i decreti attuativi della riforma, a una risoluzione sciagurata quale quella di valutare ogni anno, ma di fermare solo ogni due. Si eliminerà così il punto più debole della nuova riforma. Se costruendo un edificio ci accorgiamo che le fondamenta scricchiolano rinforziamo il secondo piano? Vorrei infine richiamare l’attenzione sul problema della professionalità del corpo docente. Anche se i programmi saranno i migliori possibili, occorre tener presente che la loro realizzazione è affidata ai docenti. Dai pure la stoffa più pregiata a un mediocre sarto, l’abito sarà di qualità scadente. Ora il problema a mio avviso più grave della scuola italiana è dato dalla qualità del corpo docente. L’articolo 1 , c. 3 parla esplicitamente di valorizzazione professionale del corpo docente e l’on. Valentina Aprea ha dichiarato che occorre favorire fra gli insegnanti la cultura della valutazione e che occorre smettere con l’autoreferenzialità. Benissimo, concordo, ma vorrei porre un problema: chi, come e che cosa valuterà? Vista la situazione attuale e la fumosità di quanto proviene dall’alto è lecito chiedere se a qualcuno interessa come, a che livello qualitativo si lavora in classe? Perché è bene far sapere anche ai non addetti ai lavori che attualmente tutto si valuta e si retribuisce tranne la qualità dell’insegnamento. Anzi troppo spesso l’insegnante serio, preparato, che lavora e che conseguentemente pretende il raggiungimento di determinati livelli è penalizzato. Continueremo così? Chi ci valuterà? Il dirigente scolastico, gli studenti, i genitori, i bidelli? Saremo tanto più bravi quanto maggiore sarà il numero dei promossi e più alta la media dei voti che daremo ai nostri studenti? Non sono provocatoria, vivo da troppi anni nella scuola e ho qualche difficoltà a credere nelle favole. Nel frattempo colgo un segnale inquietante. Si è formata una commissione per stilare un codice deontologico: chiaro segnale di una precisa volontà di passare da un ruolo subordinato e impiegatizio e un ruolo professionale: dopo molte e presumo interessanti discussioni si è concluso con un nulla di fatto. Eppure è un argomento che varie associazioni avevano da tempo discusso ed erano state formulate ipotesi concrete. Ora o i membri della commissione erano degli incapaci o non c’è la volontà politica di dare una vera svolta al ruolo docente. Tertium datur?
Pierangela Bianco
MACCARI E STRAPAESE, LA LEZIONE DI ORCO BISORCO
Le bacchettate e le burle contro la società moderna di un paradossale "eretico ortodosso"
Perché riscoprire un autore dimenticato che oggi farebbe impallidire Verdi e No global
Mino Maccari fu pittore di particolarissimo talento, disegnatore pungente, umorista geniale e impietoso. Ma questo toscanaccio era - cosa che gli è costato, caso ennesimo, l’oblio imposto dalla cultura "rispettabile" - un fascista. Fu Maccari un mirabile interprete del fascismo più autentico, ma rimasto idea pura e minoritaria, quello "tradizionalista" e "popolare", cattolico e antiborghese, anticalvinista e antiamericano, antidealista e antimodernista. Quello che restò lontano dai rituali del regime, dalle parate, dai pennacchi, dagli orbaci all’ultima moda e dagli stivali lucidi. Uno dei motti maccariani più celebri durante il "fastismo", il fascismo opulento, era: "Sia fatto arrosto chi s’è messo apposto". Mino, di cui uno degli pseudonimi preferiti fu Orco Bisorco, "a posto" non si mise mai. Chiamò "Strapaese" il luogo ideale e immaginario di cui auspicava l’affermazione e che divenne un ricco movimento culturale. Non volle cedere all’ansia futurista che pervadeva quell’epoca. Inorridiva pensando al manifesto del 1909 in cui si scrisse: "un automobile ruggente , che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di Samotracia". Lui e agli altri "selvaggi" consideravano l’automobile una "camicia di Nesso" e non la usarono mai. Un’altra "eresia" di Maccari fu il rifiuto delle tesi razziste importate. Telesio Interlandi (direttore del Tevere in cui lavorò anche Almirante) fu preso bellamente per i fondelli con una serie incessante di battute, al punto che gli fu dedicata una quarta di copertina con la seguente didascalia: "A Telesio Interlandi / Or ciascun si raccomandi / presentando com’è logico / l’albero genealogico". Strapaese si autodefiniva "colonia dei fascisti selvaggi, che è quanto dire degli italiani rurali, di quelli che si salvano dalla società americana". Qualcuno contesta che i "selvaggi" fossero eretici rispetto al fascismo mussoliniano, semmai - si sostiene - ne erano l’espressione meno contaminata. Mussolini scrisse:: "L’urbanesimo assume in Italia aspetti sempre più inquietanti Bisogna ruralizzare l’Italia, anche se occorrono miliardi e mezzo secolo"? A queste parole del duce, Orco Bisorco rispondeva con goliardica impertinenza: "O Mussolini, gli Strapaesani hanno già cominciato: da qualche anno e senza un quattrino". "Noi possiamo vantarci - diceva fiero l’Orco toscano - di essere i più strenui difensori del fascismo rurale e delle qualità probe, oneste, forti della nostra gente; noi soli la difendiamo - e non per estetismo - dal bastardume novecentista, dalle teorie futuriste-bolsceviste, dalle impostazioni sfacciate della cosiddetta civiltà di marca americana". Nessuno sfuggì all’aggressività corrosiva di Strapaese. Nemmeno uomini come Gentile ed Evola, Spirito e Chiurlo, Pende e De Stefani, Volpe e Ansaldo furono risparmiati dalle mitragliate antimoderniste dei "selvaggi". Nessuna istituzione di regime, per quanto intoccabile, fu risparmiata: "che seccatura / l’istituto fascista di cultura". Nonostante le sue frecciate da toscanaccio gli avessero già una volta procurata l’espulsione dal partito, Maccari non sapeva restar muto di fronte al carrierismo dei certi gerarchi: "Ispezionate le province, camerata Farinacci, ma ispezionatele a fondo e troverete delle carogne da buttar via e dei buoni da utilizzare. Perché molto spesso la disciplina, localmente, diventa il mezzo col quale un pugno di faziosi stretti da vincoli oscuri, sottomettono i nuclei pensanti e le intelligenze che oltre a portare al partito un contributo di pensiero, di idee e volontà, romperebbero le uova nel paniere misterioso dei sullodati signori". Questo Maccari che menava fendenti a destra e a manca amava follemente l’umorismo e l’ironia, al punto di imputare al regime di aver ereditato e fatto proprio una certa tetra "austerità" di tipo "mazziniano": "Abbiamo spesso considerato che il Fascismo non ha oggi, manifestazioni d’allegria. I suoi giornali umoristi fanno piangere. I giornali politici son quasi sempre lugubri. Il Fascismo che non sa ridere ci stringe il cuore. La politica che non sa ridere non fa per noi". Questo fu il fascismo di Orco Bisorco e della "tribù selvaggia" di Strapaese (nella quale militarono Soffici e Malaparte, Pelizzi e Bilenchi, Ungaretti e Bencini): una miscela esplosiva fatta di squadrismo e tradizionalismo, oggi utilizzabile più che mai. Oltre il "tradizionalismo" spurio e laicistico degli Omodeo, oltre il "tradizionalismo" esoterico e neo-pagano di Evola, quello di Maccari e della sua squadraccia fu il tradizionalismo popolare cattolico, rivoluzionario e antiborghese, antiamericano e antimodernista che spavaldamente proclamava: "Siamo nati in campagna! Abbiamo bazzicato per le osterie! Abbiamo amici fra i barrocciai, fra i vetrai, fra i contadini, fra gli artigiani! Si finisse a Piccadilly, ed alla Fifth Avenue, sempre ragioneremo e discorreremo alla maniera antica italiana. Se la civiltà dei nostri tempi è, come dicono, una civiltà meccanica, ovvero macchinista, non saremo così sciocchi da farci schiacciare o rimbecillire dalle macchine". Perché dunque parlare oggi di Mino Maccari, che era già fuori dal tempo nella sua epoca? Beh, il suo lascito deve rappresentare un pungolo per le nostre coscienze moderne, uno stimolo per affrontare le sfide del nostro tempo, per non arrendersi alla violenza di modelli che hanno già vinto, perché si sono imposti, ma a cui mai e poi mai dobbiamo permettere di toglierci la voglia di sognare.
La vita del selvaggio Mino
Nato a Siena nel 1898, a diciannove anni partecipa alla Grande Guerra come ufficiale di artiglieria di campagna. Tornato a Siena nel 1920 si laurea in giurisprudenza ed inizia a lavorare presso lo studio dell’avv. Dini a Colle Val d’Elsa. Sono di questi anni i suoi primi tentativi di pittura ed incisione. L’esordio di Maccari in pubblico è con il Gruppo Labronico. Nel 1922 partecipa alla "marcia su Roma". Nel 1924 viene chiamato da Angiolo Bencini a curare la stampa de "Il Selvaggio", dove vi appaiono le sue prime incisioni; nel 1926 abbandona la professione legale e ne assume la direzione fino al 1942. Nel 1925 la redazione del "Selvaggio" si trasferisce a Firenze e tra i suoi collaboratori annovera Ardengo Soffici, Ottone Rosai e Achille Lega. Nel 1927 Maccari partecipa alla II° Esposizione Internazionale dell’Incisione Moderna e alla III° Esposizione del Sindacato Toscano Arti del Disegno. L’anno dopo è presente alla XVI° Biennale di Venezia. Nel 1929 "Il Selvaggio" si trasferisce a Siena e Maccari espone delle puntesecche alla II° Mostra del Novecento Italiano a Milano. Agli inizi degli anni Trenta è capo redattore della "Stampa" di Torino, accanto al direttore Malaparte. Nel 1931 partecipa alla I° Quadriennale di Roma (dove sarà ancora nel 1951 e nel 1955). Nel 1932 "Il Selvaggio" si trasferisce a Roma. Nel 1938 viene invitato alla XXI° Biennale di Venezia con una sala personale, collabora ad "Omnibus" di Longanesi e tiene una mostra personale all’Arcobaleno di Venezia. Nel 1943 espone ad una personale a Palazzo Massimo in Roma e alla Mostra Dux al Cinquale di Montignoso. Nel 1948 è di nuovo alla Biennale di Venezia dove gli viene assegnato il premio internazionale per l’incisione (vi sarà anche nel 1950, 1952, 1960, 1962). Alla fine degli anni Quaranta inizia la sua collaborazione alla rivista liberale "Il Mondo", diretta da Pannunzio, conclusasi nel 1963. Nel 1955 è alla Biennale di San Paolo (Brasile). Nel 1962 gli viene affidata la presidenza dell’Accademia dei Lincei. Quindi nel 1963 tiene una mostra personale a New York alla Gallery 63 e nel 1967 partecipa alla "Mostra d’Arte Moderna in Italia 1915-1935", tenuta a Firenze a Palazzo Strozzi. Seguono una serie di mostre personali ed esposizioni internazionali di grafica, tra cui quella del 1977 a Siena, dove gli viene dedicata una personale a Palazzo Pubblico. Muore nel 1989 a Roma.
Fabio Pasini