BIBLIODESTRA, ECCO I "MAGNIFICI DIECI"
Da Evola a Tolkien: viaggio tra i libri più letti dai militanti di AN e di AG
La fantasy di Tolkien. Il tradizionalismo di Evola. Il "romanticismo fascista" di Drieu La Rochelle, Brasillach e Céline. La rivoluzione conservatrice di Schmitt e Jünger. E, immancabile, la storia del fascismo di De Felice e la memoralistica della Repubblica sociale italiana. Passano gli anni ma gli autori preferiti dai militanti di Azione Giovani sono gli stessi dei loro precedessori del Fronte della Gioventù. Dal Msi ad An, dai congressi almirantiani a quelli finiani. Dalla prima alla seconda Repubblica. Tutto cambia, ma i libri nella biblioteca dei "camerati" rimangono più o meno sempre gli stessi. Vediamo i testi che campeggiano nella classifica degli "ever-green" del pensiero di destra. Primo tra tutti, supportato anche dal colossal cinematografico, "Il Signore degli Anelli" di J.R.R.Tolkien, la storia di elfi e hobbit che a partire dagli anni ’70 è diventata una lettura classica prima per i ragazzi del FdG e ora per quelli di AG. "È il libro dei libri, il libro che più di tutti spiega che cosa vuol dire essere di destra": parola della 25enne Giorgia Meloni, attuale presidente di Azione Giovani. Ma anche le dissertazioni sul tradizionalismo del "Barone Nero", al secolo (novecentesco) Julius Evola, risultano intramontabili. In particolare i suoi "Orientamenti" (pamphlet che va esaurito ogni 2-3 anni) e la monumentale "Rivolta contro il mondo moderno", che vende 100-150mila copie l’anno. Amatissimi anche i "maledetti" francesi Pierre Drieu La Rochelle, Robert Brasillach e Louis-Ferdinand Céline. Del primo è assai apprezzato "Il socialismo fascista". E si attende ormai da anni la ristampa della sua opera cult, il romanzo "Gilles", raccolto del "sogno" politico di Drieu: una piazza di bandiere nere e rosse, unite in un’unica causa rivoluzionaria. Di Brasillach viene letto in particolare "Lettera ad un soldato della classe ’40", che contiene un saggio di Adriano Romualdi. Di Céline rimangono ai posteri (non solo a quelli di destra) due capolavori del Novecento: i romanzi "Bagatelle per un massacro" e "Viaggio al termine delle notte". Una curiosità: i racconti celiniani sono tra i preferiti anche del "compagno" Fausto Bertinotti. Uno dei "breviari" del militante di AG continua ad essere il "Trattato del ribelle" di Ernst Jünger, il soldato-scrittore tedesco che ha lasciato in eredità ai lettori del nuovo secolo anche il libro forse più significativo sull’esperienza esistenziale nelle trincee della Prima guerra mondiale: "Tempeste d’acciaio". Del politologo e giurista Carl Schmitt, invece, i "camerati" apprezzano in particolare "Il nomos della terra". L’uomo di destra è un po’samurai? Sembrerebbe proprio di sì, visto che ormai da un paio di generazioni le "Lezioni spirituali per giovani samurai" di Yukio Mishima sono un "classico" per le biblioteche prima del Fronte della Gioventù, ora di Azione Giovani. Non si possono poi dimenticare gli autori del revisionismo storiografico. Se molti continuano a leggere le opere sul fascismo di Giogio Pisanò e Pino Rauti, il nome che ormai dal 1970 è diventato abituale nelle discussioni tra militanti è quello di Renzo De Felice. Chi non ha mai sentito parlare della sua "Intervista sul fascismo"? Pochi, pochissimi - pensiamo -, almeno tra i quadri di AG. Tra le letture sul fascismo e sulla Repubblica sociale italiana vanno forte anche i romanzi di Ugo Franzolin. Uno tra tutti: "Il repubblichino". Infine, grande sorpresa (ma non per tutti); alla libreria Europa di Roma (www.libreriaeuropa.it); meta obbligata per i gli amanti della cultura di destra, sono molto venduti i libri di un militante di sinistra, che più di sinistra non si può: Ernesto "Che" Guevara. Proprio così, il mito stampato sulle magliette di due generazioni di "compagni". Nulla di che stupirsi. A destra in molti credono ancora in una rivoluzione che vada "al di là della destra e della sinistra". Ci fermiamo qui con la "classifica" dei magnifici dieci della cultura di destra. Scusandoci per quanti libri (e autori) non abbiamo citato. Ci rimane un’ultima cosa da dire. La base più motivata e militante di AG continua a leggere i testi classici del pensiero di destra, quelli, per intenderci, che già leggevano i loro predecessori missini e frontisti. Questo ci pare un fatto. Ma, è bene ribadirlo, gli orizzonti culturali della destra sono assai più ampi di quelli sopra delineati. Lo testimonia la rubrica "La Libreria", contenuta nel sito di An (www.alleanzanazionale.it/archivio/libreria+.html); curata dal professore e vicepresidente del Senato Domenico Fisichella. In quelli scaffali "virtuali" si possono trovare i libri di Almirante e Antiseri; De Benoist e Aron; Evola e Tocqueville; Jünger e Messori; Schmitt e Von Hayek. Insomma, dalla destra tradizionalista, pagana e anti-moderna a quella liberale, cattolica e moderna. Tante letture, tutte feconde. Ma un partito come An, che vuole darsi un’identità definita e non ambigua, può permettersi di "leggere" tutto e il contrario di tutto?
Massimiliano Mingoia
RECENSIONE
SERGIO ROMANO, "CONFESSIONE" DI UN CONSERVATORE
Sergio Romano - "Memorie di un conservatore" - Ed. Longanesi, Milano 2002 - pagg. 229, 14 euro.
Prima si è definito "revisionista". Ora si dà del "conservatore". Non c’è che dire: Sergio Romano non ha certo paura di cadere nelle forche caudine costruite dai teorici del politicamente corretto. Anzi, si attribuisce due appellativi che gli hanno attirato (e gli attireranno) attacchi violenti e spesso scomposti. Tant’è. L’ex ambasciatore non se ne cura e va avanti per sua strada anticonformista. Le sue "Confessioni di un revisionista" (pubblicate nel 1998) sono tra le letture più illuminanti per capire (in sole 150 pagine) bugie, distorsioni e teoremi della storiografia progressista. Ora Romano ha dato alle stampe un libro altrettanto interessante: "Memorie di un conservatore". Un sorta di storia autobiografica dall’infanzia ai giorni nostri in cui l’editorialista del Corriere della Sera ci racconta la sua formazione culturale, gli aneddotti storici vissuti e la sua carriera da ambasciatore. Non solo. Nell’ultimo capitolo, intitolato "Confessione", l’autore traccia un ritratto filosofico-politico della figura del conservatore liberale, definizione in cui egli stesso si riconosce. Lo diciamo subito: poche volte abbiamo letto un ritratto così sintetico e convincente sulla figura del conservatore. Romano si rifà a quella tradizione whig, che caratterizza i conservatori di origine liberale, contrapponendoli ai liberal, i liberali di sinistra o progressisti tout court. Dicotomia classica del pensiero politico anglosassone, nelle sue due versioni inglese e statunitense. Ma che cosa pensa un conservatore liberale? Egli, secondo Romano, è prudente e scettico; riconosce la libertà ma non crede che tutti possano farne buon uso; crede che tutti gli uomini siano stati creati uguali ma riconosce la gerarchia; non si oppone al suffragio universale ma diffida della democrazia, che può degenerare in tirannia democratica; sa che la distanza tra democrazia giacobina e Stato totalitario è corta rispetto anche a quella tra società elitaria e dittatura; riconosce l’utilità delle riforme; ha una mentalità storica, attenta alla realtà diversamente dalla cultura illuministica del liberal, fondata su una sorta di razionalismo messianico; riconosce la guerra ma ne diffida; come diffida delle novità, perché ne teme le ricadute rivoluzionarie, ma non è un Don Chisciotte. Nella genealogia del suo conservatorismo, Sergio Romano indica statisti come Valéry Giscard d’Estaing, Margaret Thatcher, Ronald Reagan, Luigi Einaudi. Ma anche Charles de Gaulle, Konrad Adenauer, don Luigi Sturzo, Alcide De Gasperi. Nel ritratto del conservatore liberale si sentono anche gli echi del pensiero di Edmund Burke, di Alexis de Tocqueville, di Friedrich von Hayek. E, per restare in Italia, Romano sembra ricalcare le orme di Giuseppe Prezzolini, che con il suo "Manifesto dei conservatori" è stato uno dei pochi intellettuali italiani a tentare - con successo - di delineare l’identità del conservatorismo. Una "Confessione" assai feconda dunque quella dell’ex ambasciatore. Ma godibilissime sono anche le 223 pagine precedenti a quest’ultimo capitolo. Il racconto della vita di Romano si mischia a giudizi storici sempre lucidi. E controcorrente. Emerge ancora una volta quel "revisionismo", quel senso di intendere la storia, proprio del conservatore, con cui l’editorialista del Corriere della Sera legge la storia del Novecento. Basti citare questo passo. È il 29 aprile 1945: "La nonna paterna abitava in viale Gran Sasso, dietro piazzale Loreto, ma rifiutai di andare a vedere il corpo di Mussolini e dei suoi compagni. La vista di tanti soldati stranieri - inglesi, americani, canadesi, australiani, indiani, brasiliani - mi incuriosiva e mi infastidiva. Non cercai mai la loro compagnia. Avevano vinto la guerra e avevano tutti i diritti, fuor che quello di pretendere la mia cordialità". Per Romano, l’Italia aveva perso la guerra e non c’era di che rallegrarsene. Un giudizio che, non c’è che dire, dimostra ancora una volta il coraggio del revisionismo dell’ex ambasciatore contro ogni "vulgata" resistenziale.
Massimiliano Mingoia