La dottrina giuridica è praticamente unanime nel sostenere l’assunto secondo cui nel giugno 1991, quando la Croazia e la Slovenia proclamarono la secessione dalla Repubblica federativa jugoslava, l’Italia avrebbe potuto denunciare tutti gli accordi bilaterali stipulati con il Governo di Belgrado, e riprendere la propria libertà d’azione: il caso più significativo riguarda il trattato di Osimo del 1975, di cui quest’anno ricorre il trentennale. Invece, come tutti sanno, Roma si affrettò a riconoscere con singolare solerzia le nuove Repubbliche, ancor prima degli altri Stati europei, ed il Presidente della Repubblica Francesco Cossiga rese visita ufficiale a Lubiana e Zagabria subito dopo la secessione, mentre il Ministro degli Esteri Gianni De Michelis dichiarava augurabile di "non dover mai affrontare" l’eventuale "ritorno all’Italia dell’Istria e della Dalmazia".
A parte il fatto che la questione territoriale avrebbe potuto porsi per la sola Zona "B" del TLT, oggetto di Osimo (stipulato con la sola Jugoslavia); e non per il resto della Venezia Giulia e della stessa Dalmazia, trasferite sotto la sovranità altrui già dal 1947, a seguito di un trattato di pace imposto all’Italia da ben 21 Stati contraenti, è utile ricordare che il riconoscimento ufficiale della Federazione serbo-montenegrina, questa sì erede diretta della vecchia Jugoslavia, sarebbe avvenuto soltanto nel 1996, ad un quinquennio dalla secessione di Croazia e Slovenia. Eppure, già dal 1991 il Governo di Belgrado aveva manifestato un’ampia disponibilità a supportare eventuali attese italiane circa la denuncia del trattato di Osimo e le conseguenti implicazioni giuridiche e politiche.
Si volle ritenere, contro ogni evidenza logica, che la Slovenia dovesse succedere "sic et simpliciter" nei patti a suo tempo stipulati con la Jugoslavia, nel falso presupposto che un diverso comportamento avrebbe potuto essere interpretato alla stregua di una "realpolitik" inattuale, se non anche antidemocratica, salvo assumere un atteggiamento ben diverso proprio con la Federazione serbo-montenegrina. Del resto, denunciare Osimo non avrebbe necessariamente significato avanzare rivendicazioni di fondo in materia territoriale, o di regimazione delle acque nel golfo di Trieste (che il trattato del 1975 aveva disposto in modo assurdo); ma negoziare su nuove basi una politica di buon vicinato in cui avrebbero potuto trovare spazio, ad esempio, la restituzione dei beni a suo tempo nazionalizzati a danno degli Esuli giuliano-dalmati, la tutela delle loro tombe e dei loro valori culturali, e più generalmente, il riconoscimento dei torti subiti dall’Italia nei lunghi decenni di regime comunista.
A trent’anni da Osimo, si può ben dire che la tesi della secessione automatica è stato un "monstrum" di carattere giuridico, ma prima ancora, un’aberrazione politica, che si inquadra nelle tradizioni italiane, davvero ingloriose. A questo riguardo, non è inutile ricordare che, dopo il 1991, l’atteggiamento di Lubiana e di Zagabria nei confronti di Roma non avrebbe subito apprezzabili modificazioni rispetto a quello precedente di Belgrado: ad esempio, nel 1995 nessuno ebbe a sollevare eccezioni quando le forze croate ruppero gli indugi ed invasero la Krajina; nel 1998, la rimozione forzosa delle tabelle italiane in Istria non fu oggetto di alcuna protesta ufficiale, se non da parte del movimento giuliano-dalmata; ed ancora nel 2000, si celebrarono ad Albona, con grande concorso popolare, ed alla presenza del Presidente croato Mesic, i fasti dell’omonima Repubblica rossa, di cui ricorreva l’ottantesimo anniversario, mentre subito dopo migliaia di titini si sarebbero minacciosamente radunati a Kumrovec, luogo nativo di Josip Broz, per celebrarne il ventennale in un clima nostalgico assai pesante. Per l’Italia, nulla da eccepire, al pari di quanto accadde un anno dopo, quando il processo Piskulic, nonostante le schiaccianti testimonianze d’accusa, si chiuse con l’assoluzione dell’ultimo infoibatore, od in tempi più recenti, quando una Corte italiana avrebbe pronunciato la propria incompetenza, motivandola col fatto che i reati da giudicare erano stati commessi in un territorio sottratto alla sovranità italiana, sia pure successivamente agli eventi.
Non c’è che dire. Qualcuno potrà obiettare che, presi singolarmente, questi fenomeni hanno un’importanza circoscritta, ma anche a prescindere dalla loro prioritaria valenza etico-politica, che ne trascende le dimensioni e gli effetti immediati, tutti sono in grado di capire che esprimono una singolare continuità di cedimenti, e di compromessi, poco compatibili con il ruolo di uno Stato, come quello italiano, che a torto od a ragione si compiace di figurare tra le prime sette potenze mondiali. In realtà, si è scoperto proprio in tempi recenti che il bel Paese è precipitato al cinquantaquattresimo posto nella graduatoria mondiale della competitività, preceduto anche dalla Lettonia e dal Botswana: fotografia impietosa di una situazione che trova analogie non casuali nella politica estera, e nella carenza dei suoi fondamenti etici (l’Italia, per dirne una, figura in coda alla graduatoria mondiale anche negli interventi per la cooperazione).
In questo panorama che per taluni aspetti si potrebbe definire plumbeo, la tesi della secessione forzata di Croazia e Slovenia negli accordi bilaterali con la Jugoslavia, ormai consolidata dalla prassi, non sorprende più di tanto, ma deve essere riproposta all’attenzione generale, ricorrendo il trentennale di Osimo, affinché "indocti discant et ament meminisse periti". In Italia, anche il diritto internazionale è oggetto di interpretazioni elastiche, talvolta stravolgenti, ma quel che è peggio, senza che ciò avvenga a supporto dei suoi interessi legittimi: la dissoluzione del senso dello Stato è l’effetto più amaro delle prevaricazioni localistiche, partitocratiche, o peggio ancora, individuali.
Carlo Montani