L’accordo stipulato fra Italia e Libia alla fine dello scorso agosto, proprio in concomitanza col trentanovesimo anniversario del colpo di stato di Gheddafi, cui fece seguito l’espulsione in massa degli italiani e persino delle loro tombe, può essere definito un patto leonino, e non certo un trattato: infatti, tra i due contraenti non esiste, se non nella mera forma, un rapporto realmente paritetico, come si converrebbe a due Stati sovrani, tanto che il Presidente del Consiglio Berlusconi ha dovuto accettare la pretesa del suo interlocutore di recarsi a Bengasi per apporre la firma al protocollo d’intesa nel palazzo che fu sede del quartier generale italiano in Cirenaica.
Gli italiani consapevoli hanno espresso a larga maggioranza il proprio disaccordo, come è emerso da un sondaggio pubblicato in Internet da cui risulta che tre quarti dei cittadini sono contrari, per un motivo o per l’altro, a questa ennesima "caduta" della politica estera italiana. C’è di più: persino il quotidiano di Confindustria ha preso le distanze dalla nuova intesa italo-libica, nonostante le speranze che taluni imprenditori italiani, in specie del settore edile, non hanno nascosto circa il parziale "ritorno" dei cinque miliardi di dollari erogati a Gheddafi, la cui quota maggiore, come è noto, dovrebbe essere destinata alla costruzione della faraonica autostrada costiera, di quasi duemila chilometri.
Diciamo la verità: "Il Sole-24 Ore" ha avuto ragioni da vendere, quando ha sottolineato che le motivazioni essenziali dell’accordo sono per lo meno labili. Infatti, il cosiddetto "risarcimento" dei danni apportati dal colonialismo italiano (senza tenere alcun conto dei vantaggi, certamente prevalenti sul piano economico) era già stato compiuto prima che il colonnello azzerasse tutte le intese già intervenute fra Roma e Tripoli; poi, le forniture di petrolio da parte della Libia sono già garantite dalla presenza del Gruppo ENI e dai suoi tempestivi pagamenti; ed infine, il blocco dell’emigrazione clandestina verso la Sicilia è velleitario, se non addirittura utopistico, non essendo ragionevole presumere che la costa libica possa essere pattugliata esaurientemente, senza dire che anche in questo caso i disperati di turno si imbarcherebbero dall’Egitto o dalla Tunisia.
In compenso, gli obblighi italiani sono categorici, a prescindere dalla destinazione effettiva che il Governo di Gheddafi vorrà riservare, nell’ambito della sua sovranità, ai mezzi finanziari acquisiti alla stregua dell’accordo.
La partecipazione delle imprese italiane ai grandi lavori pubblici programmati dalla Libia (oltre all’autostrada si dovrebbe costruire un discreto numero di abitazioni popolari); è un "optional", non solo perché dovranno confrontare le loro offerte con quelle di una concorrenza sempre più selettiva, ma prima ancora, perché nei venti anni di vigenza dell’accordo potrebbero intervenire modificazioni unilaterali di politica interna a cui l’Italia ben poco potrebbe opporre, sia politicamente che giuridicamente. Quanto alle pensioni italiane ai cittadini libici resi invalidi dagli eventi bellici (che ricorda quelle ben più gravi e numerose riservate agli infoibatori titini ed ai loro soci); si tratta di una concessione con valore meramente simbolico perché quasi tutti si sono già trasferiti nel paradiso di Allah; e poi, chi controllerà i titoli dei beneficiari, per non dire di quelli degli "studenti" islamici a cui Roma, nell’ambito dell’accordo, offre graziose borse di studio?
Si deve aggiungere che, a 39 anni dalla conquista del potere da parte del colonnello, ed a due terzi di secolo dalla fine dell’esperienza coloniale in Libia, non sarebbe irragionevole porre un problema di prescrizione, a prescindere dalla reale consistenza dei "danni" apportati dall’Italia. Diversamente, qualora si volesse sostenere il carattere imprescrittibile dei cosiddetti "delitti", in ogni caso da documentare e quantificare, sarebbe altrettanto logico porre sul piatto della bilancia il risarcimento di quelli che il colonnello, con palese sprezzo dei diritti umani, volle compiere a danno di almeno 20 mila italiani, la cui unica colpa era stata quella di mettere a disposizione della "quarta sponda" la propria fede ed il proprio lavoro. Le "alte non scritte ed inconcusse leggi" invocate da Antigone nei confronti di Creonte, fino a prova contraria, debbono valere per tutti, compreso Gheddafi.
Le illusioni degli imprenditori italiani sono tanto più evidenti quando si consideri, come è stato puntualmente illustrato, sempre ad iniziativa de "Il Sole-24 Ore", che esistono decine di Aziende con crediti per oltre 250 milioni di euro mai onorati, a fronte di commesse ultimate in Libia, talvolta da decenni: non mancano casi di chi è stato rovinato fino al suicidio, senza contare le vertenze giudiziarie concluse a favore del creditore italiano persino davanti alla Suprema Corte libica, ma rimaste prive di seguito concreto perché l’avente causa "non ha mai ottenuto un euro". In siffatte condizioni, è per lo meno strano che nel pacchetto degli accordi oggetto di negoziato non sia stato inserito il pagamento di questi debiti, previa cancellazione degli espropri effettuati quale supporto alle crescenti pretese di "risarcimenti coloniali"; ed è certamente affrettato presumere che il mercato libico si debba aprire come un eldorado, sebbene sia già stata annunciata la realizzazione di una grande cementeria, tecnicamente avanzata, con l’apporto prioritario del capitale italiano.
E’ il caso di precisare che i profughi italiani cacciati dalla Libia nel 1971, senza contare quelli che avevano già preso la via dell’esilio 25 anni prima, assieme agli esuli dall’Eritrea, dall’Etiopia, dalla Somalia e dalla Venezia Giulia, sono tuttora in attesa dell’indennizzo "equo e definitivo" da parte del Governo di Roma, promesso a più riprese e regolarmente disatteso, sia dai progressisti che dai moderati. Tale ostracismo è ancora più amaro nella congiuntura attuale, perché, come è stato posto in luce a cura dell’AIRL (Associazione Italiana Rimpatriati dalla Libia); i mezzi finanziari offerti al colonnello senza alcun apprezzabile corrispettivo sono largamente superiori (quanto meno nella proporzione di dieci a uno) all’impegno che scaturirebbe dal suddetto indennizzo.
Le cronache giunte dalla Libia all’indomani dell’accordo firmato da Berlusconi hanno evidenziato, non senza qualche enfasi di troppo, che alcune centinaia di dignitari o presunti tali, giustamente consapevoli del carattere trionfale assunto dal patto leonino imposto da Gheddafi, si sono fatti premura di conferire al colonnello il titolo, invero pertinente, di "Re dei Re". E’ stata la degna conclusione di una vicenda in cui l’Italia assume un ruolo comprimario, tipico di uno "sparring partner", e quel che è peggio, crea i presupposti sostanziali e formali di possibili "trattati" analoghi con altri Stati nel cui ambito ebbero ad esplicarsi le sue esperienze di espansione, coloniale o meno che fosse: si pensi all’Africa Orientale, dove la presenza di Roma fu notevolmente più lunga di quella, poco più che trentennale, avutasi in Libia, ma anche ad altri Paesi come la Grecia, l’Albania e la ex-Jugoslavia, dove fu parimenti significativa, sia pure in forme ben diverse, sul piano giuridico, da quella del regime coloniale. Considerando i fasti della politica estera italiana, c’è da aspettarsi di tutto; il solo motivo di parziale conforto è sapere che tutti questi Paesi non hanno risorse petrolifere.
Quando l’Italia liberale andò in Tripolitania, poco meno di un secolo fa, nessuno avrebbe potuto presumere che la ricerca di un "posto al sole" da parte di colei che Giovanni Pascoli volle definire con felice sintesi "la grande proletaria", e le suggestioni civilizzatrici che ne derivarono, avrebbero comportato, nel nuovo millennio, impegni finanziari a favore di una nuova sovranità africana talmente jugulatori da assomigliare a quello dell’agnello nei confronti del lupo, ed oggettivamente diversi dalla prassi avviata, pur nell’ambito di fattive cooperazioni, da parte di altri Stati ex colonizzatori.
Non a caso, dopo la firma dell’accordo italo-libico, in Algeria ed in Marocco è stato puntualmente rilevato che le decisioni di Roma contrastano palesemente con quelle già assunte dalla Francia, evidenziando quanto sarebbe opportuno che i rispettivi Governi "chiedano le scuse" a chi li aveva colonizzati: ebbene, il Quai d’Orsay si è limitato a precisare che la storia dell’Italia in Libia ha una sua "specificità", tale da non giustificare il paragone con altre situazioni solo apparentemente simili. Il "Re dei Re", invece, nel discorso pronunciato davanti al Congresso del Popolo, all’indomani stesso dell’incontro con Berlusconi, ha potuto affermare che, qualora non fossero arrivate, prima ancora dei miliardi di dollari, le "scuse per l’occupazione coloniale", la Libia sarebbe stata pronta ad "azzerare i rapporti".
L’Italia, in altri termini, ha dovuto e voluto accettare una condizione sostanzialmente subordinata, che del resto è una costante della sua politica estera da parecchi decenni a questa parte. Sic transit gloria mundi!
Laura Brussi