Le celebrazioni dei 150 anni dalla proclamazione dello Stato italiano corrono il rischio di coincidere con una nuova stagione camaleontica non propriamente esaltante, caratterizzata dall’ennesimo salto della quaglia, del quale tutto si potrà dire ma non che corrisponda alla volontà del cosiddetto popolo sovrano. Del resto, non è una novità, soprattutto in Italia, che maggioranze apparentemente consolidate vengano abbattute al pari di un castello di carte, cercando di dimostrare come il nuovo "ribaltone" si compia nell’interesse superiore del Paese, quando tutti sanno bene quali siano le sue ragioni effettive, legate a fattori contingenti ed alle tradizionali operazioni da consorteria. In realtà, la politica italiana è sempre stata il regno del pressappochismo e dell’improvvisazione, che fa tornare in mente la commedia dell’arte od il giuoco di prestigio, con tutto il rispetto per i personaggi che ne erano abili e spregiudicati protagonisti. Dal Risorgimento in poi, la prassi del "teatrino" ha dato ottime prove, il cui elenco è davvero significativo: si pensi alle esperienze che furono dette del connubio tra moderati e progressisti, o del trasformismo elevato a sistema di governo. Dopo l’avvento della Repubblica, la fantasia politica è venuta alla ribalta con ulteriori accelerazioni semantiche e sostanziali: chi non ricorda l’esperienza delle convergenze parallele o della "non sfiducia" uscite dalla fertile inventiva delle segreterie di partito alla caccia di formule che potevano significare tutto e niente? In quegli anni, la politica parve assumere connotazioni alchimistiche, non meno opinabili di quelle attuali, che indulgono soprattutto allo spettacolo. Considerazioni non dissimili valgono per il compromesso storico, che peraltro chiamava in causa l’opportunità di fare fronte comune contro l’emergenza del terrorismo, ma che più tardi, venute meno le esigenze di straordinarietà, si sarebbe tradotto in esperimenti definiti senza mezzi termini di "inciucio" (quasi a sottolineare la prevalenza dell’interesse particolare se non addirittura individuale su quello della comunità). In questo percorso non è difficile scorgere i sintomi di un progressivo scollamento, inteso come distacco della "casta" dai problemi ed anche dal cuore della gente. La politica interna non ride, ma quella estera piange. Senza scomodare le esperienze talvolta disastrose dell’Italietta, fatte di umiliazioni e di improvvisazioni simboleggiate - per dirne una - dai pesanti pastrani in dotazione al primo Corpo di spedizione in Eritrea, la logica del camaleonte ebbe momenti di particolare notorietà nei "giri di valzer" che tanto irritavano Vienna e Berlino; nella segretezza con cui venne firmato il Patto di Londra; e più tardi, negli eventi che portarono all’armistizio di Cassibile ed al suo annuncio tardivo. A quel punto, il camaleonte si era vestito da pecora se non anche da coniglio, come si sarebbe visto in occasione del diktat ed a più forte ragione di Osimo, quando l’Italia fu capace di rinunciare alla sovranità su una porzione del proprio territorio, senza alcuna contropartita: non era mai accaduto. La mancanza di tradizione unitaria spiega il fenomeno in misura parziale e riduttiva; del resto, esistono Stati importanti e "giovani" come l’Italia, ma non per questo alieni dal perseguire scelte e comportamenti coerenti. C’è dell’altro: l’incapacità di una gestione etica della cosa pubblica si coniuga con un pervicace individualismo, suffragando la permanente vittoria del Guicciardini ai danni di Machiavelli e della sua filosofia fondata in primo luogo sulla priorità dello Stato e della sua fondamentale "salvezza". Non si deve trascurare, nel contempo, l’influenza della Chiesa e della naturale propensione cattolica alla tutela dei valori personali, commendevole quanto si vuole, ma esposta alla ricorrente tentazione di confonderli con interessi più contingenti. Nessuno intende assumere la difesa della "parte sbagliata" in modo aprioristico, ma un esame oggettivo della storia italiana durante questi 150 anni - che sarebbe stato congruo celebrare in modo veramente patriottico e scevro da strumentalizzazioni - consente di evidenziare come il Ventennio, pur nei limiti e nei paralogismi sottolineati dalla migliore storiografia, abbia costituito una cesura nei confronti della prassi compromissoria diventata sistema: non già perché il Duce del fascismo avesse manifestato, sulle prime, analoghe suggestioni camaleontiche abbandonando la vecchia milizia socialista, ma perché la tipologia stessa di Stato forte che aveva avviato a realizzazione con il contributo determinante di Gentile implicava il ripudio dell’incertezza e dell’attendismo. In fondo, l’errore decisivo di Benito Mussolini fu quello di rinunziare ad un’opzione sicura e difendibile come la "non belligeranza". Oggi, nuove ombre "futuristiche" sono in arrivo sullo scenario politico dell’Italia: a parole, nell’intento di consentire al Paese un salto di qualità sul terreno etico e di corrispondere, in questo senso, ad un’esigenza certamente diffusa; in pratica, col risultato di mortificare la volontà degli elettori e di giubilare una maggioranza di grande ampiezza, mai vista nella storia della Repubblica. Ne conseguono ulteriori incertezze, costi crescenti ed un clima di stupefatta precarietà che non giova agli investimenti ed alla difesa dell’occupazione. La tradizionale fiducia nello stellone diventa ancora una volta l’unico santo a cui votarsi, ma facendo tutte le attenzioni del caso, perché quando il camaleonte muta pelle, cambia pure il colore. L’Italia, invece, ha bisogno di stabilità, sicurezza e coerenza.
Carlo Montani