Marcello Veneziani ha detto che a Salò si ritrovarono il "meglio e il peggio del fascismo". Credo che si possa partire da questa considerazione per ragionare su quanto avvenne nell’Italia settentrionale dopo l’8 settembre 1943. Negli ultimi anni la storiografia, dalle più diverse posizioni ideologiche, ha guardato alla Repubblica Sociale Italiana e ai protagonisti di quell’esperienza con interesse e curiosità, oltre che storici, antropologici e psicologici. Al di là dell’odio politico che ha animato da sempre i sostenitori e i pensatori della "parte giusta", va detto che non è mancato il tentativo di capire le ragioni di chi invece, a dispetto della convenienza e dell’andamento della storia, si è ostinato a spendersi per la "parte sbagliata". Dall’appello di Togliatti ai "fratelli in camicia nera" alle parole usate da Violante nei confronti dei "ragazzi di Salò" persino gli interpreti più ortodossi della tradizione comunista hanno provato a guardare oltre la condanna del nemico più odiato. Paradossalmente invece da destra si nota un certo impaccio nel valutare la breve epopea della Rsi. Vi è una sorta di rimozione che nulla ha a che vedere con la maturazione politica e con il superamento di vecchie posizioni. Siamo alla liquidazione di un patrimonio ideale di grande importanza, una dote morale lasciata da quella che Marzio Tremaglia chiamava "la generazione che non si è arresa". I fondatori del Movimento Sociale Italiano raccolsero le insegne della sconfitta e ripartirono proprio da lì, da quell’opzione così poco conveniente per seguirne un’altra altrettanto scomoda in epoca democratica e antifascista. Quindi Msi e dintorni elaborarono copiosamente il "lutto" attraverso la memorialistica (rilevante quella di Filippo Anfuso e Rodolfo Graziani); la rielaborazione teorico- politica e storiografica (Giorgio Pisanò) e la semplice esaltazione reducistica e nostalgica. Si è scritto e parlato molto di Salò perché lì era il punto d’arrivo e di non ritorno del fascismo italiano, l’epilogo da tragedia greca di un fenomeno su cui non a caso non si termina mai di discutere. Si è parlato di "scelta" da parte di coloro che si arruolarono nelle file della piccola Repubblica. Bene, per molti non fu semplicemente una scelta. Era la strada obbligata intrapresa da chi era cresciuto con il mito della Patria e dell’Onore, con quello dell’imperativa fedeltà al Capo, con la convinzione che "contro l’oro c’è il sangue a far la storia". Abbiamo sentito più volte le testimonianze di uomini come Almirante, Tremaglia, Accame, Rauti, dirci che era assolutamente logico buttarsi in quell’avventura perché fin da piccoli avevano giurato che non avrebbero mai tradito. Ecco allora che ritroviamo a Salò uomini e donne di età diverse combattere non più per "vincere", ma per perdere con onore. E furono proprio i ragazzi e persino i bambini che scrissero pagine che, al di là di ogni valutazione storica, non è possibile trascurare. Molti, moltissimi dei gerarchi che godettero del fascismo più sfarzoso e "vincente", nei giorni della difesa della sconfitta si dileguarono come topi nella campagna. Venne invece l’ora di una gioventù limpida, che a ben vedere non aveva colpe per quanto avvenuto durante il Ventennio, ma che aderì con entusiasmo ad una missione che anche ai loro occhi ingenui non poteva apparire che un’impresa disperata. E’ qui che sta l’idea rivoluzionaria dal punto di vista umano. Il destino li aveva portati sulla via di una fede cieca che conteneva in sé la gloria e la disperazione. Il pensiero va a chi oggi ha venticinque, venti, quindici anni: quanto è imbarazzante il confronto! E il discorso vale anche per chi decise di nascondersi in montagna con un fazzoletto rosso al collo: quanto erano diversi quei giovani partigiani dagli attuali i figli di papà che giocano a fare i No global! I ragazzi che continuarono a vestire la camicia nera anche nel momento del disastro furono senza dubbio il frutto migliore di un fascismo che stava cadendo, vinto sul campo di battaglia. Andarono a "cercar la bella morte" invece di seguire la convenienza del momento come fecero milioni di compatrioti e di "incorruttibili" camerati. Vi fu però anche "il peggio" di cui parlava Veneziani. In quell’Italia allo sbando trovarono il modo di mettersi in evidenza anche elementi di pessima qualità umana: briganti, tagliagole, rubagalline e semplici psicopatici. Anche sotto le insegne di Salò militarono molti personaggi animati da crudeltà e viltà che non si fecero scrupolo alcuno nell’infierire nei confronti di chi comunque aveva la loro stessa nazionalità e spesso si trattava di civili inermi. A costoro va il medesimo disprezzo riservato a chi compì i massacri del "triangolo della morte" emiliano, alla mano infame che assassinò Giovanni Gentile e a quegli inqualificabili figuri che, dopo averlo prelevato dall’istituto oftalmico di Milano, fucilarono l’eroe di guerra Carlo Borsani, cieco, uomo mite e moderato. Quei seicento giorni rappresentano la fine tragica, ma al tempo stesso il parziale riscatto, di una vicenda complessa che la storia, prima ancora degli storici, si è presa il compito di giudicare. Rimane comunque l’esempio di coloro che seppero assumersi, oltre alle proprie, le responsabilità di altri; una lezione che noi, pasciuti figli dell’occidente moderno, stentiamo a capire, anche quando abbiamo il vezzo di definirci di destra.
Fabio Pasini