Il 18 agosto 1946, a sedici mesi dalla fine del secondo conflitto mondiale, la città di Pola fu vittima di un terrificante attentato con almeno 87 Vittime ed un numero imprecisato di feriti, a seguito dell’esplosione contestuale di alcune bombe su una spiaggia affollatissima, anche per la concomitanza di una manifestazione sportiva. Nonostante tutto, si confidava ancora che almeno Pola, momentaneamente controllata dagli Alleati occidentali, potesse essere sottratta alla cupidigia jugoslava, e conservare quel carattere di "enclave" italiana che dopo la prima guerra mondiale era stato conferito a Zara: come tutti sanno, di lì a pochi mesi le speranze andarono deluse, perché il 10 febbraio 1947 sarebbe stato imposto il "diktat", con il conseguente esodo di quasi tutti i polesani, ed il trasferimento di sovranità a far tempo dal successivo 15 settembre.
L’attentato di Vergarolla, la località marina dove fu consumato lo scempio, non ebbe un ruolo determinante nell’incentivare l’esodo (a Pola sarebbero rimasti soltanto duemila italiani, a fronte di un numero di profughi superiore di quasi venti volte); ma costituì un’ulteriore dimostrazione del clima che si andava instaurando e delle condizioni ambientali con cui sarebbe stato necessario confrontarsi qualora la città fosse stata perduta, come poi accadde. Era il corollario degli infoibamenti, degli annegamenti e delle fucilazioni che avevano caratterizzato la congiuntura socio-politica dell’Istria già occupata dalle milizie jugoslave, perdurando con singolare pervicacia ben oltre la fine delle ostilità, e che avevano trovato esemplificazione emblematica in un’altra strage, quella della motocisterna "Lina Campanella".
Le responsabilità specifiche di Vergarolla non furono mai accertate, anche perché vennero propalate versioni strumentali senza alcun fondamento logico, né tanto meno istruttorio, ma nel "Volksgeist" di Pola e dei suoi cittadini sarebbe rimasta per la vita ed oltre, al di là dell’esodo e della diaspora, una ben "legittima suspicione": motivo di più per ricordare, ad ogni ricorrenza annuale, quell’efferato delitto, e gli episodi di eroismo che, pur nella sventura, si sarebbero manifestati ad onore di tanti protagonisti (fra i tanti, è da ricordare il comportamento di un medico dell’Ospedale Civile, il dott. Micheletti, che pur avendo perduto due figli nell’attentato, continuò a prestare la sua opera in sala operatoria per tante ore a dir poco allucinanti).
Nel 2006 ricorreva il sessantesimo anniversario della strage, e le celebrazioni avrebbero dovuto assumere una valenza più significativa, non solo con la deposizione delle tradizionali corone sul cippo che ricorda quel doloroso evento, e nel tratto di mare antistante la spiaggia di Vergarolla, ma nello stesso tempo con un incontro presso la Comunità Italiana di Pola, organizzato in collaborazione col Libero Comune in Esilio. Il tema scelto, tuttavia, non è sembrato congruo, perché la conferenza che ha costituito il momento qualificante dell’incontro è stata dedicata all’impegno europeistico di Giuseppe Mazzini, interpretato alla stregua di un invito alla fratellanza fra tutti i popoli, e nella fattispecie, fra quelli italiano e slavo.
A ben vedere, la correlazione tra la strage di Vergarolla e la concezione mazziniana sembra piuttosto labile, senza dire che sarebbe stato più pertinente coinvolgere il pensiero e l’azione di altri Uomini che, in quanto giuliani e dalmati, avevano sostenuto la causa delle loro genti e delle loro terre con forza ben più specifica: si pensi, da un lato, alle intuizioni di un Gian Rinaldo Carli o di un Matteo Renato Imbriani, e dall’altro, all’eroismo di un Oberdan, di un Sauro, e di tanti altri Martiri. Ciò, con tutto il rispetto per il Mazzini, e senza bisogno di scomodare il giudizio per taluni aspetti impietoso che su di lui venne espresso da un importante storico come Gaetano Salvemini, non certo propenso a simpatie di destra, e nemmeno moderate, che lo ebbe a definire non già un uomo politico, e nemmeno un pensatore, bensì un "mistico" (causa non ultima dei suoi reiterati insuccessi e dei dubbi che conseguentemente lo assalirono).
E’ ben vero che il Mazzini, dopo aver fondato la "Giovine Italia", avrebbe dato vita anche alla "Giovine Europa" (con la partecipazione di Organizzazioni consorelle delle sole Germania, Polonia ed Ungheria, e non certo della Croazia o di altre nazionalità balcaniche); ma è pur vero che, in concreto, la sua attività si sarebbe limitata al contesto italiano, dove d’altronde non mancavano certo le oppressioni; e che la "Giovine Europa" sarebbe rimasta sulla carta, anche se un secolo più tardi avrebbe costituito un riferimento storico di valore filosofico, più che politico, per i primi veri europeisti, a cominciare da Altiero Spinelli.
In buona sostanza, celebrare Vergarolla, a sessanta anni dal misfatto, con l’esortazione ad una sorta di "embrassons nous" mutuata da un mazzinianesimo di maniera, e non già da un reale approfondimento delle ragioni e dei torti, è sembrata a molti una forzatura, come pure l’avere affermato che la popolazione italiana di Pola era di forte orientamento socialista, e che l’esodo di non pochi polesani fu indotto, in qualche misura, da suggestioni emozionali, se non anche antistoriche, quando è ormai accertato che le matrici fondamentali non furono soltanto una scelta di civiltà e di giustizia, ma nello stesso tempo, la necessità di sfuggire alle persecuzioni dei partigiani di Tito ed al loro conclamato disegno di pulizia etnica, ammesso "sic et simpliciter", anni dopo, dai vari Gilas e Kardelj.
Forse, non avrebbe guastato una ragionevole impronta di realismo, e diciamolo pure, di buon senso. Del resto, se è vero che accanto al grande esodo dei 350 mila giuliani e dalmati si ebbe anche quello dei duemila "monfalconesi" e comunisti "doc" che abbandonarono l’Italia per scegliere il paradiso di Josip Broz e dei suoi accoliti, è anche vero che costoro fecero una brutta fine, tanto che, quando non scomparvero nell’inferno dell’Isola Calva o degli altri penitenziari jugoslavi, i più fortunati sarebbero rientrati in Italia, in ordine sparso, e con le pive nel sacco.
Carlo Montani