Ultimamente, il problema della Cina, sulla cresta dell’onda da parecchi anni, è diventato ancora più dibattuto, con interventi calibrati e propositivi come quelli di Innocenzo Cipolletta, Presidente della Editrice Il Sole-24 Ore e del Gruppo Ferrovie, e di Giovanni Sartori, massimo politologo italiano, e docente alla prestigiosa Columbia University, oltre che alla Facoltà Cesare Alfieri di Firenze. Ne è sorta una disputa garbata ma stimolante, che vale la pena di riepilogare per sommi capi, perché investe le radici di un problema generale.
Cipolletta, anche alla stregua di una lunga esperienza come Direttore Generale di Confindustria, afferma che la Cina odierna è un "fattore di sviluppo più che di freno", e riconosce che l’idea di condizionarne la concorrenza tramite dazi e quote può essere "seducente" in prima battuta, ma assimilabile all’antica proposta dei "luddisti che volevano distruggere le macchine per evitare che distruggessero il lavoro esistente". Aggiunge che se l’Italia non cresce, non è colpa della Cina, bensì delle sue strozzature, ricorda che i prezzi cinesi sono spaventosamente bassi ma nascondono spesso clamorose sottofatturazioni, al pari di quanto facevano gli esportatori italiani quando c’era il controllo dei cambi, e conclude sostenendo che il problema della Cina sarà risolto solo dal progresso, sia pure a lungo termine, grazie all’aumento dei suoi costi ed alla conseguente trasformazione del gigante giallo da concorrente in acquirente.
Sartori, assai noto anche come editorialista del Corriere della Sera, replica sostenendo che quello della Cina è il massimo problema del secolo, perché "a parità di tecnologia, nell’economia globalizzata l’Occidente ad alto costo di lavoro è destinato a restare senza lavoro": se le scarpe cinesi rese in Europa costano due euro, contro i venti di quelle italiane più economiche, non ci può essere partita, perché per quanto si faccia, non si riuscirà a ridurre il costo se non di pochi punti percentuali, e quindi, di uno o due euro. Tutti dicono che bisogna incentivare la competitività, ma bisogna tenere presente che l’Italia è parecchio indietro anche rispetto ai suoi partners europei nel fattore energetico, nella lentocrazia e nell’onerosità dei trasporti, e prima ancora negli oneri indiretti di lavoro. Alla fine, bisogna ammettere che gli elementi decisivi sono il costo della merce e quello della manodopera, ma che la "liberalizzazione" è stata perseguita soltanto nel primo: pertanto, spiega Sartori, in siffatte condizioni i conti dell’Italia non torneranno mai.
Come si vede, entrambe le posizioni pongono questioni ineludibili, e lo fanno con la credibilità che scaturisce dall’alta qualificazione professionale e scientifica degli interlocutori. Intanto, si tratta di un confronto stimolante perchè ha il merito di escludere la delocalizzazione dell’impresa come rimedio a tutti i mali, in quanto premia soltanto il fattore produttivo, ma non il lavoro nazionale, che anzi ne soffre in misura ovviamente crescente. Poi, perché sottintende che il problema è soprattutto politico, e che in sede politica dovrebbe essere affrontato e risolto: caso mai, si sarebbe potuto aggiungere che ne manca la volontà, sia nelle maggioranze che nelle opposizioni, perché presume interventi impopolari, e quindi estremamente difficili.
Cipolletta e Sartori, al di là di talune apparenze formali, hanno esposto due aspetti di uno stesso rompicapo, che andrebbero affrontati congiuntamente. E’ giusto affermare che non si possono attribuire alla Cina tutte le colpe del nostro malessere, anche se l’argomento è piuttosto comodo nell’ottica della classe politica, ed è altrettanto vero sostenere che senza una reale competitività nel costo energetico, senza la necessaria sburocratizzazione, e senza soluzioni degli annosi problemi infrastrutturali che distinguono l’Italia, la decadenza progressiva è assicurata, a prescindere dalle ripresine più o meno contingenti: non è forse vero che la sua quota di mercato mondiale è scesa in pochi anni dal cinque per cento a meno del tre? Nondimeno, con buona pace dei sindacati, la questione del lavoro e del suo differenziale di costo rimane centrale e prioritaria, con l’aggravante che talune imprese sopravvivono grazie al sommerso ed alla manodopera a basso costo importata dall’Africa, o guarda caso, dalla stessa Cina.
Si obietterà che resta la carta qualitativa, per niente trascurabile, e dei mercati di nicchia che essa consente di promuovere proficuamente, ma tutti sanno che essa presume investimenti importanti dalla produzione alla distribuzione, a loro volta condizionati da una redditività delle imprese tendente al minimo per effetto della concorrenza, e dalla scarsa accessibilità di mezzi finanziari effettivamente agevolati per tutti, in primo luogo per le piccole e medie aziende, oltre che da adeguati incentivi alla ricerca (un altro fattore nel quale l’Italia occupa posizioni non certo avanzate).
Va da sé che i comparti maggiormente penalizzati, per un comprensibile paradosso, sono quelli ad alto contenuto professionale, dove il lavoro italiano e la qualità del suo "know-how" hanno costituito per tanto tempo la ragione prima della sua competitività, che ora si ritorce sulle imprese del bel Paese come un vero e proprio boomerang. E’ una ragione in più, non certamente marginale, per sottolineare come, scomodità elettorali a parte, si debba prendere coscienza consapevole del problema, invece di fare la politica dello struzzo, e di dilettarsi con una serie di confronti stimolanti quanto si vuole, ma pur sempre accademici. Non dimentichiamo mai che mentre a Roma si discuteva, Sagunto cadeva.
Carlo Montani