La "chiusura" del cosiddetto contenzioso italo-libico da parte del Presidente Berlusconi e del Colonnello Gheddafi risponde, come è facilmente intuibile, alle esigenze sempre attuali della ragione di Stato, ma ciò non significa che, almeno nel linguaggio politico e diplomatico, e persino nella scelta del luogo per la firma dell’accordo, si siano perse buone occasioni, se non altro per manifestare la pari dignità che compete a due Stati liberi e sovrani.In effetti, non sarebbe stato affatto necessario che la cerimonia fosse programmata nella vecchia sede del Quartier Generale italiano di Bengasi, quasi a sottolineare, anche sul piano simbolico, la condizione di sostanziale inferiorità di Berlusconi nei confronti di Gheddafi, che avrebbe potuto recarsi a Roma, dove sarebbe stato accolto con gli onori dovuti al suo rango, o quanto meno, accogliere l’ospite nella residenza ufficiale di Tripoli.La stessa restituzione della Venere di Cirene, che era stata trafugata circa 90 anni or sono dagli archeologi italiani, e che fa seguito a quella dell’obelisco di Axum, spedito all’Etiopia in tre pezzi e ricostruito non senza qualche approssimazione, ha voluto sottolineare la persistenza di un atteggiamento nobile quanto si vuole, ma difforme da una consolidata prassi internazionale: la Gran Bretagna ha forse restituito alla Grecia i fregi del Partenone? E la Francia ha forse restituito all’Italia le opere d’arte sottratte da Napoleone?
Prescindendo dagli aspetti formali, che in diplomazia hanno rilevanza talvolta essenziale, non sembra di poter dire che questa "chiusura", al di là delle espressioni di giubilo manifestate dai Ministri Bossi e Maroni, sia stata un buon affare per l’Italia, cui compete l’obbligo di versare alla controparte cinque miliardi di dollari in 20 anni, anziché nei 25 che erano stati ipotizzati fino alla vigilia dell’incontro, ricevendo, in cambio, la sola "promessa" di controllare con maggiori attenzioni il flusso dell’emigrazione clandestina (che dovrebbe essere affare interno dell’Italia cui compete il controllo delle proprie coste e dell’eventuale diritto all’asilo politico da parte degli interessati); e di promuovere gli investimenti dell’ENI nel settore petrolifero. Oggettivamente, c’è una forte sperequazione, anche volendo tenere conto del differenziale imposto dalle esigenze "risarcitorie" o presunte tali.I mezzi finanziari erogati dall’Italia, come è stato detto, serviranno a costruire 1600 chilometri dell’autostrada costiera di cui si parla da decenni, a varare un programma di edilizia popolare, a completare l’opera di sminamento del territorio libico, e ad attivare l’erogazione di pensioni a favore dei cittadini libici mutilati in conseguenza delle operazioni belliche (dovrebbe trattarsi di una piccola pattuglia di ultra-ottantenni).
A parte il fatto che gli ultimi due interventi hanno scarso valore economico, e che non potranno essere oggetto di controlli esaustivi, ancorché doverosi sul piano morale, la realizzazione dell’autostrada e la costruzione delle case "potranno" essere appannaggio di imprese italiane, ma come è facile comprendere, non può esistere nessuna garanzia formale in tal senso, perché l’affidamento di tali opere dovrà essere oggetto di regolari gare d’appalto.La sperequazione tra i vantaggi acquisiti dalla Libia e le opportunità che ne scaturiscono a favore dell’Italia non potrebbe essere più evidente, ma si giustifica, appunto, con l’intento di chiudere un contenzioso pluridecennale, e di versare un giusto "risarcimento" a fronte degli "eccidi" e delle "violenze" del periodo coloniale. A questo proposito, va detto a chiare note che davanti alla ragione di Stato non esistono argomenti che tengano, ma va aggiunto che il Colonnello Gheddafi, salito al potere con il colpo di stato del 1970, e quindi a ben 25 anni dalla fine della presenza coloniale italiana nel suo Paese, non perse tempo nel denunciare le intese precedenti, ed a cancellare i rapporti di costruttiva collaborazione che il Governo di Roma aveva instaurato con la Monarchia senussita: come si ricorderà, gli italiani presenti in Libia vennero espulsi con singolare immediatezza, nello spregio di ogni civile consuetudine, e furono costretti a prendere la via dell’esilio, oltre tutto senza un equo indennizzo di cui sono tuttora in attesa, al pari dei profughi giuliano-dalmati e di quelli dall’Africa Orientale e dall’Egeo.
E’ amaro, e storicamente inaccettabile, che di tutto ciò si sia perduta la memoria storica, e prima ancora, quella etico-politica, e non è certo commendevole che l’accordo del 2008 con la Libia significhi, al di là delle espressioni di circostanza, accettazione proclive delle prevaricazioni altrui: dopo tutto, l’Italia avrebbe potuto venire incontro alle attese di Tripoli, e salvaguardare (resta da vedere con quali reali prospettive) i suoi interessi economici, senza concedere a Gheddafi, oltre ai mezzi finanziari, il privilegio di infliggere un’umiliazione che ricorda quella di Canossa. Non è fuori luogo aggiungere che in alcune sedi si è parlato della necessità di porgere le "scuse" per i conclamati "crimini fascisti", senza tenere conto che quando l’Italia entrò in guerra con la Turchia per andare in Tripolitania e cantarne le prerogative di "bel suol d’amore", il fascismo era di là da venire; e che il Governo era guidato da un vecchio liberale come Giolitti. Al pari di altre esperienze coloniali da questo punto di vista certamente peggiori, come quelle inglesi, belghe, portoghesi, e via dicendo, l’Italia non usò il guanto di velluto, sia nel conflitto del 1912, sia nella cosiddetta "riconquista" che si sarebbe compiuta all’inizio degli anni trenta, come la storiografia ufficiale ha ampiamente dimostrato, in primo luogo nelle opere di Angelo Del Boca; ma nessuno ha potuto negare che, accanto al pugno di ferro, il colonialismo italiano seppe corrispondere, almeno in parte, alla sua vecchia vocazione civilizzatrice, costruendo strade, bonificando terreni, offrendo occasioni di lavoro alla manodopera indigena, promuovendo la cultura e l’educazione popolare: in una parola, avviando una vera cooperazione, degna di questo nome.
Oggi, di tutto ciò non si vuole o non si può tenere conto, ma la verità, come direbbe Giusti, "è li che parla a chi la vuol sentire", con buona pace del Colonnello Gheddafi, e prima ancora, del Governo italiano.
Carlo Montani