Parlare dei banchi a rotelle è, con frase ormai passata alla storia, come “sparare sulla Croce Rossa”. Che dire, dopo tutto quello che è stato detto e scritto. Ogni parola, ogni commento sembra inutile. Indubbiamente meritoria l’iniziativa della ministra Azzolina, che ha voluto fornire le scuole italiane di nuovi banchi, dismettendo quelli ormai vetusti. Ma nessuno credo abbia veramente capito e a nessuno è stato veramente spiegato, o forse mi è sfuggito, perché i banchi a rotelle. Assomigliano così tanto ai seggioloni sui quali da bambini, poco più che lattanti, venivamo collocati liberi di giocare con i sonaglini e in attesa della pappa. Quei seggioloni avevano anche un foro al centro della seduta, affinché il pargolo potesse fare i suoi bisogni con comodità, a mo’ di “comoda”. E meno male che a nessuno è venuto in mente di riprodurli uguali oggi, magari per evitare il contingentamento per andare ai servizi… Incredibilmente, proprio in questi mesi in cui si chiede a chiare lettere e con insistenza giusta, quanto spesso inascoltata, di evitare assembramenti, proprio in questi giorni i banchi vengono forniti di rotelle. Proprio ora che i banchi dovrebbero essere inchiodati al pavimento per evitare facili spostamenti, ora che i banchi tradizionali sono stati collocati nelle aule con strisce adesive per terra che ne evidenzino gli spazi non superabili, proprio ora si mettono a disposizione banchi che possano con la più grande facilità spostarsi? Non voglio pensare ai percorsi da luna park, agli “autoscontri” nei momenti di intervallo, ma durante le normali ore di lezione in presenza questi banchi chiaramente verranno mossi con la più grande facilità, contraddicendo proprio l’attenzione a quel distanziamento di cui tanto si è detto. Misteri dell’istruzione italiana. Senza contare l’esiguo spazio a disposizione per appoggiare libri, vocabolari o quaderni. Ma la nostra scuola ci ha ormai abituato a sorprese, da sempre. Sorprese che poi tali non sono, diventando ormai prassi normale. Nulla è più stabile del provvisorio. Ci siamo abituati alle lungaggini burocratiche, al “valzer” annuale dei supplenti, alle nomine di dirigenti che sovrintendono contemporaneamente alla propria scuola e sono reggenti anche altrove, alle riforme scolastiche. Quasi non c’è ministro della pubblica istruzione che non faccia la sua riforma, magari anche piccola, che passerà alla “storia”. Intanto la scuola si dibatte in una palude, nelle sabbie mobili di decreti, norme, note che vengono in continuazioni emanate, specialmente in questi tempi di pandemia. Indubbiamente il momento è difficile, l’esperienza è unica e mai avvenuta in simile forma, ma il disorientamento è anche grande. Poi ci sono i genitori. I genitori che gridano per la scuola in presenza, come se ci si divertisse a farla online. O meglio: certi ragazzi si divertono o dormono o fanno tutt’altro che impegnarsi. E per i più piccoli è una vera sofferenza la mancata socializzazione. Ma il grido di dolore di tante famiglie è dovuto più che altro al fatto che non sanno dove parcheggiare i propri figli. Indubbiamente problema non da poco, specialmente quando si lavora in due. Problema non da poco, quando non si ha la connessione o il pc. La scuola diventa in questo modo, inconsapevolmente, questo è vero, mezzo per un’ulteriore ingiustizia sociale, per una differenza che pesa sul futuro dei propri figli. Ma la situazione è quella che è. Poi ci sono gli insegnanti, che si inventano modalità online, sperimentano nuove piattaforme, nuove metodologie didattiche. Niente: chi non aveva voglia di studiare continua a non farlo. Il fatto è che manca una cultura della scuola, una cultura, una consapevolezza di cosa voglia dire andare a scuola. La scuola dell’obbligo non ha certamente favorito una coscienza dell’importanza dello studio. Ma non è colpa dei ragazzi. La società del benessere non stimola alla curiosità, al miglioramento, a porsi degli obiettivi, ma è sazia davanti alla TV, al tablet, al cellulare, inebetita dal nulla.
V. A. F.