Perché l’antifascismo non muore? In altra parte di questo periodico ci siamo interrogati sul perché non muore il mito di Mussolini (non del fascismo, che non è la stessa cosa). Ora ci chiediamo perché si continua con la contrapposizione fascismo/antifascismo a tanti anni dalla caduta del fascismo. L’ antifascismo di oggi, ormai da parecchio tempo, dietro la pur nobile e doverosa difesa dei valori democratici, appare sempre più come l’ultima bandiera che è rimasta alla sinistra. E questa bandiera viene tenuta alta … perché non c’è altro. Se la sinistra non facesse professione continua di antifascismo (giusta questa professione per quanto riguarda la difesa della democrazia e dei valori fondanti della nostra Repubblica. Ma a questo punto dovrebbe fare professione anche di anticomunismo, di quel comunismo come storicamente abbiamo conosciuto, non certo meno antidemocratico) cosa le rimarrebbe? Già Herbert Marcuse, il “padre fondatore” del ’68, della contestazione, negli anni sessanta (cioè più di sessanta anni fa!) segnalava come la classe operaia si fosse omologata al potere. Le nuove forze antisistema sono da ricercare quindi non più nella classe operaia ma nei nuovi emarginati, negli esclusi, nei disoccupati, in tutti coloro che sono rimasti ai margini di una società che non li ha ancora inglobati. E la bandiera che avvolge questi ultimi è, appunto, l’antifascismo. Rileggendo le pagine di Marcuse ne constatiamo l’attualità. La sinistra si aggrappa a queste “classi”, a questi emarginati, dopo che la classe operaia è scomparsa. Ed è scomparsa non in quanto classe lavoratrice, ma in quanto categoria sociale. La bandiera della sinistra sventola sugli emarginati, sui poveri, sugli immigrati, sulle folle di disperati in tutto il mondo. Giusto. Giusto prendere le difese dei più deboli, di chi soffre, di chi non ce la fa, ma che ci sia chi pensi di affrontare queste difficoltà diversamente, con una scelta metodologica diversa, non può essere classificato sbrigativamente come “fascista”. L’antifascismo, così, è diventato buono per tutto ed assistiamo ad eventi che ricordano il costume fascista. Così vediamo la “spaghettata antifascista”, la “befana antifascista” ed altri manifestazioni francamente un po’ patetiche nel volersi dare una patina di validità con l’appellativo “antifascista”. La storia va avanti ma nel nostro paese, paese di guelfi e ghibellini, le divisioni superate ormai dai tempi, persistono. La sinistra in questi tempi è smarrita, cerca un’identità e una figura come segretario nazionale che la tiri fuori dalle secche (almeno questo vale per il PD).Si tratta di rifondarsi, dopo che è diventata il partito della borghesia, dell’amministrazione del potere. E non sembra facile. La classe operaia si vede sempre più rappresentata da quella che una volta era il nemico storico: la destra. Ma questo perché, come noto ormai da anni anche se facciamo finta di nulla e continuiamo con le storiche contrapposizioni, sono saltate le ideologie e la differenza la fa la parte che meglio risponde alle esigenze dell’oggi; la differenza la fa chi ha una visione del futuro del Paese più chiara; la differenza la fa chi non si allinea con il pensiero dominante, col pensiero unico. Perché anche se siamo in un’epoca in cui l’omologazione, l’adesione a modelli stereotipati, è sempre più evidente, la consapevolezza di un cambio di passo, di un pensiero autonomo e di scelte non sempre condivise dalla maggioranza, da quella che appare la maggioranza grazie ai mass media, appare con uguale evidenza.
Giosafatte